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«Questo è soltanto un esempio. In fondo si tratta di questo: ciò che noi chiamiamo fortuna è in realtà il risultato di diversi fattori perfettamente definiti, fra l’altro e soprattutto il modo di giocare le carte di ogni mano, e la maniera tipica di battere le carte di ogni giocatore.» Dal modo come lo diceva sembrava tanto importante quanto la teoria della relatività «Certe volte le serie sono molto comuni, altre volte sono sempre più strane man mano che va avanti il gioco: lunghe sequenze, mancanza assoluta di un seme, e così via. Alcune sere le buone carte sono tutte al nord e al sud, altre sere all’est e all’ovest. Caso? Fortuna? Niente affatto. È il risultato di cause note. Alcuni giocatori molto esperti fanno senz’altro tesoro di questo principio per determinare l’ubicazione probabile delle carte. Ricordano come sono state giocate le mani nell’ultimo giro, come sono state riunite le carte per rifare il mazzo, ricordando che la maniera di mescolare influisce sul ridisporre le carte e interpretano questi dati secondo le chiamate e gli attacchi del giro successivo. Ecco, è semplicissimo. Voglio dire, sarebbe semplicissimo per uno di quei giocatori di scacchi che giocano con gli occhi bendati. Logicamente ogni giocatore di bridge…»

La mente di Norman cominciò a distrarsi… Se si applicasse questo principio fuori del bridge? Se le coincidenze o altri eventi inaspettati non fossero dovuti al caso come invece sembrano? Supponiamo ci siano individui particolarmente dotati per la chiamata e l’attacco. Ma questa era un’idea logica… non vi era nulla in essa da suscitare quel brivido che lui aveva provato.

«Mi chiedo perché i Gunnison non siano ancora arrivati» osservò il professor Carr «Si potrebbe cominciare subito con un tavolo di bridge. Si riuscirebbe forse a fare una partita in più.»

Il suono del campanello mise fine all’attesa.

Gunnison aveva l’aspetto di chi ha buttato giù la cena troppo in fretta, e Hulda pareva di cattivo umore.

«Abbiamo dovuto fare tutto in fretta» brontolò, mentre Norman teneva aperta la porta. Come le altre due donne, la signora Gunnison quasi lo ignorò e concentrò i suoi saluti su Tansy. Il che diede a Norman un senso di disagio che gli ricordava i primi mesi a Hempnell e le visite ai membri della facoltà, visite che avevano messo i suoi nervi a dura prova. Tansy appariva in posizione di svantaggio, disarmata di fronte a quelle tre megere dai modi aggressivi.

“E con questo?” si disse. Era una cosa normale, per le mogli dei professori di Hempnell. Si comportavano sempre come se passassero le notti a meditare per eliminare ogni ostacolo che si frapponesse fra il proprio marito e il seggio di preside.

Mentre Tansy… Ma era proprio ciò che Tansy aveva fatto, o piuttosto ciò che Tansy diceva che quelle tre stessero facendo. Lei non lo aveva mai fatto, aveva soltanto… Norman sentì che i suoi pensieri cominciavano a vorticare paurosamente e cambiò strada.

Stavano sorteggiando i compagni di tavolo.

Le carte parvero confermare la teoria di Carr. Le mani erano uniformemente mediocri, anormalmente medie. Nessuna lunga sequenza, nient’altro che una comune distribuzione: 4-4-3-2 e 4-3-3-3. Si annunciava una presa se ne facevano due, si annunciavano due prese, si andava sotto di una.

Dopo il secondo giro Norman ricorse al suo personale rimedio contro la noia, il gioco della ricerca del carattere primitivo, da giocarsi da solo, segretamente. Era un esercizio adatto all’immaginazione di un etnologo. Si partiva dal presupposto che la gente intorno a sé apparteneva a una razza barbarica, e ci si figurava in quale maniera la personalità di ognuno si sarebbe manifestata su quello sfondo ambientale.

Questo gioco stasera funzionava fin troppo bene. Per gli uomini, nulla di speciale. Gunnison, naturalmente poteva essere un prosperoso capo tribù. Forse sarebbe stato in quel ruolo un po’ più grasso di adesso, servito a puntino da giovani fanciulle, ma con una moglie gelosa e vendicativa pronta ad aggredire chiunque. Carr poteva essere il cestaio, un ometto anziano e vivace dal sorriso un po’ scimmiesco, che intesseva fibre di paglia secondo tradizionali figure matematiche. Sawtelle sarebbe stato naturalmente il capro espiatorio della tribù, bersaglio di infiniti e malvagi scherzi.

Ma le donne!

Ad esempio, la signora Gunnison, che gli era compagna nel gioco. La si poteva immaginare con la pelle scura, lasciarle la zazzera rossa, intrecciare alcuni ornamenti di rame nei capelli. L’essere più robusto che si potesse immaginare, una vera montagna di carne, più forte della maggior parte degli uomini della tribù, capace di maneggiare la lancia e la clava. Lasciarle quegli occhi di bruto, allungarle il labbro inferiore facendolo sporgere in modo da darle un’espressione più apertamente accigliata e prepotente. Era fin troppo facile immaginare come avrebbe trattato le povere ragazze alle quali suo marito avrebbe mostrato di interessarsi. O come gli avrebbe imposto di seguire quella o questa politica tribale, appena soli nella loro capanna. O come la sua voce tonante avrebbe intonato gli inni di morte con i quali le donne aiutavano gli uomini impegnati in guerre lontane.

Ora le altre due. La signora Sawtelle e la singora Carr si erano portate al tavolo “dei campioni”, con lui, Norman, e con la moglie di Gunnison. Vediamo ora la signora Sawtelle. Immaginarla più magra ancora, segnare le guance con gli sfregi tribali. Tatuare la spina dorsale. Una strega, cattiva come la scorza del chinino perché aveva un marito incapace. Figurarsela mentre si agita con un feticcio tempestato di chiodi, mentre vocifera incantesimi e strappa la testa a un gallo.

«Attento, Norman! Non tocca a lei» disse la signora Gunnison.

«Mi scusi.»

E la signora Carr: spettinarla un poco, lasciarle soltanto poche ciocche di capelli bianchi sul cranio pallido come una pergamena. Toglierle gli occhiali e lasciare apparire i suoi occhi sporgenti. Si guarderebbe in giro senza veder nulla, a causa della sua miopia. Sorriderebbe con una bella bocca sdentata, alzando le braccia ossute. Una brava, innocua vecchietta, che raccoglierebbe intorno a sé i ragazzi della tribù (sempre quella sua sete di gioventù) per raccontar loro le vecchie leggende. Ma la sua mascella sarebbe sempre in grado di scattare come una trappola d’acciaio, le sue mani ad artiglio si muoverebbero agilmente per applicare il veleno sulle frecce, e non avrebbe veramente bisogno di una buona vista perché possiederebbe altri mezzi per vedere le cose, e perfino il più coraggioso dei guerrieri si sarebbe sentito a disagio se l’avesse guardata troppo a lungo.

«Quei campioni, al tavolo numero uno sono terribilmente silenziosi» disse Gunnison sorridendo. «Devono giocare molto seriamente.»

Streghe, streghe tutt’e tre, impegnate a spingere i loro mariti al vertice della gerarchia tribale.

Nell’arco della porta, all’altra estremità della stanza, la gatta, Totem, li osservava con aria curiosa, come se anch’essa valutasse un’analoga eventualità.

Ma Norman non riusciva a collocare Tansy nel quadro. La poteva immaginare fisicamente diversa, con i capelli crespi e degli anelli alle orecchie, un tatuaggio sulla fronte. Ma non riusciva a immaginarsela come un membro della stessa tribù. Nella sua fantasia, lei continuava a essere un’estranea, una prigioniera, che il resto della tribù guardava con sospetto e con odio.

O forse apparteneva a quella stessa tribù, ma aveva commesso qualche infrazione, tradito la fiducia delle altre donne. Una specie di sacerdotessa che ha violato un tabù. La strega che ha rinunciato alla stregoneria.

A un tratto il suo campo visivo si concentrò sul blocchetto segna-punti. Evelyn Sawtelle vi stava disegnando distrattamente degli ometti di aste, mentre la signora Carr meditava su un’uscita. Il primo pupazzo era quello di un uomo con le braccia alzate e con tre o quattro palline al disopra del capo, una specie di giocoliere. Poi veniva la figura, sempre fatta di aste, di una regina, poi una specie di L rovesciato dal quale pendeva una figura rigida. Una forca. Finalmente un grossolano carretto fatto di un rettangolo e di due ruote, di fronte a un uomo che alzava le braccia dalla paura.