«Ci tiene proprio a saperlo?»
La signora Carr lo guardò vacuamente. Un gufo alla luce del giorno…
«Le vanno a prendere» le disse chiaramente «in una società che cerca con ogni mezzo di stimolare e nello stesso tempo inibire uno dei loro impulsi vitali. Insomma, le prendono, quelle idee, da un branco di adulti sporcaccioni…»
«Professor Saylor, in verità!»
«C’è un certo numero di ragazze, qui a Hempnell che starebbero meglio di salute se avessero delle relazioni amorose vere, anziché immaginarie. Logicamente, alcune di esse hanno già provveduto a ristabilire il giusto equilibrio.»
Ebbe la soddisfazione di vederla soffocare per l’indignazione, mentre le voltava le spalle per dirigersi a Morton.
Il cuore di Norman batteva con una piacevole rapidità. Le sue labbra erano strette. Quando arrivò nel suo studio chiese al telefono un numero interno.
«Thompson? Qui parla Saylor. Ho un paio di notizie per te.»
«Bene, bene, sentiamo» Thompson rispose incuriosito, col tono di uno che si appresta, matita in mano, a prender nota.
«Primo: il tema del mio discorso, quello che farò alle madri degli alunni non convittori la settimana prossima: “Rapporti pre-matrimoniali e studenti universitari”. Secondo: i miei amici attori, gli Utell, fanno una tournée nella nostra città, proprio allo stesso momento. E li inviterò quali ospiti del collegio.»
«Ma…» la matita già pronta gli era certamente caduta dalle mani come un attizzatoio incandescente.
«Tutto qui, Thompson. Forse un’altra volta avrò qualcosa di più interessante. Arrivederci.»
Avvertì un dolore pungente alla mano. Aveva giocherellato con un coltello di ossidiana e si era tagliato il dito. Il sangue macchiava il limpido vetro vulcanico nel punto dove una volta, pensò Norman, si era macchiato del sangue del sacrificio, o delle ferite rituali. Cercò nel cassetto un cerotto adesivo. Il cassetto dove credeva di averlo riposto era chiuso a chiave. Lo aprì e vi trovò la piccola rivoltella che aveva tolto di mano a Theodore Jennings. Il campanello delle lezioni trillò. Richiuse il cassetto a chiave, strappò il suo fazzoletto e ne legò una striscia rapidamente intorno alla ferita aperta.
Mentre si affrettava per il corridoio lo raggiunse Bronstein.
«Facciamo tutti il tifo per lei, questa mattina, dottor Saylor» gli mormorò con simpatia.
«Cosa intendi dire?»
Bronstein ebbe un’espressione risaputa. «Una ragazza che lavora nell’ufficio del preside ci ha detto che stavano per decidere l’assegnazione della cattedra di sociologia. Spero con tutto il cuore che quei vecchi falchi dimostrino un po’ di buon senso, una volta tanto.»
La dignità accademica raggelò la risposta di Norman. «Comunque sia, io sarò soddisfatto della loro decisione.»
Bronstein accusò la nota di rimprovero. «Naturalmente.»
Si pentì subito della sua durezza. Perché redarguire uno studente che mostrava poca reverenza verso i consiglieri del collegio quali rappresentanti della divinità? Perché nascondere la sua disistima per una buona metà dei suoi colleghi? La rabbia che pensava di aver eliminato dai suoi pensieri tornò a farsi sentire con raddoppiata violenza. Un impulso improvviso, irresistibile gli fece respingere gli appunti già preparati e attaccò un discorso su ciò che pensava del mondo in generale e di Hempnell in particolare. Tanto valeva che lo sapessero da giovani!
Un quarto d’ora dopo prese coscienza di sé con un sussulto mentre finiva di pronunciare una frase di questo genere: “…di vecchie donne dalle idee sordide, nelle quali l’avidità di prestigio sociale ha raggiunto l’ampiezza di una perversione”. Non gli riuscì di ricordare neppure metà di ciò che aveva detto prima. Scrutò il viso degli alunni. Parevano interessati, curiosi; ma smarriti, quasi tutti. Alcuni di essi addirittura scandalizzati. Gracine Pollard lo fulminava con lo sguardo. Ah, già! ricordava di aver fatto un’analisi precisa ma crudele delle ambizioni politiche di un certo preside di collegio universitario, che non poteva essere altri che Randolph Pollard. A un certo punto aveva riattaccato con il suo tema dei rapporti pre-matrimoniali, ed era stato un po’ troppo esplicito sull’argomento per non dire peggio, E poi era… Be’ era esploso, ecco tutto. Come una di quelle gocce di vetro.
Terminò con cinque o sei argomentazioni generiche, un po’ incerte. Sapeva che non erano del tutto adeguate, perché lo sguardo degli alunni si fece ancor più sconcertato.
La sua classe gli sembrava lontana, un brivido lo percorreva tutto, cominciando dalla nuca e irradiandosi in tutto il corpo, a causa di alcune parole che erano come stampate nella sua mente.
Queste parole erano: “Un colpetto dell’unghia ha spezzato il filamento psichico”.
Scosse la testa come per rimescolare le lettere di questa frase, e le parole svanirono.
Aveva davanti a sé ancora trenta minuti di lezione, ma aveva voglia di andarsene. Annunciò un tema a sorpresa, scrisse due domande sulla lavagna e uscì di classe. Nel suo studio notò che il dito ferito sanguinava ancora attraverso la benda. Ricordò di aver lasciato tracce di sangue sul gesso.
E del sangue sul coltellino di ossidiana. Trattenendo l’impulso di sfiorarlo col dito, si sedette e rimase a contemplare il ripiano del tavolo.
Tutto faceva capo all’aberrazione di Tansy nel campo della magia, pensò. La cosa lo aveva scosso più di quanto osasse ammettere. Aveva cercato di togliersela dalla mente troppo in fretta, e Transy pareva anch’essa averlo dimenticato troppo presto. Nessuno si poteva scrollare di dosso un’ossessione con quella facilità. Norman avrebbe dovuto riparlarne con lei, distruggerla con lei, farla venir fuori altrimenti avrebbe fatto suppurazione.
Cosa stava mai pensando? Tansy era apparsa così felice, così sollevata in questi ultimi tre giorni, che questa linea di condotta non poteva certamente essere quella giusta.
Ma come aveva fatto Tansy a superare una crisi così grave con tanta facilità? Non era normale. Ricordò il suo sorriso mentre dormiva. Tuttavia non era Tansy che si comportava in modo strano, era lui, Norman. Come se un sortilegio…
Che cretinata! Si lasciava irritare da quel branco di vecchie incartapecorite, quelle tre arpie…
Il suo sguardo fu attratto dalla finestra, ma il telefono si mise a squillare.
«Professor Saylor? Le parlo per incarico del dottor Pollard. Può venire nell’ufficio del dottor Pollard questo pomeriggio? Alle quattro? Grazie.»
Si appoggiò allo schienale con un sorriso. “Perlomeno” pensò “la cattedra l’ho avuta.”
Man mano che le ore passavano, il cielo si faceva più scuro, le nuvole sfilacciate si rincorrevano sempre più basse. Gli studenti si affrettavano lungo i viali. Ma il temporale rimase nell’aria senza scoppiare sin quasi alle quattro.
Larghe gocce di pioggia si schiacciavano sui gradini polverosi quando Norman si rifugiò sotto il portico dell’edificio amministrativo. Il tuono spaccò a un tratto il silenzio con un crepitío violento, come se migliaia di lamiere metalliche venissero scosse al disopra delle nubi. Si voltò a guardare. I lampi davano ai tetti e alle guglie gotiche un rilievo intenso. Poi di nuovo il crepitío seguito dal tuono. Ricordò di aver lasciato una finestra aperta nel suo studio. Tanto non c’era nulla che l’acqua potesse danneggiare.