Il vento s’infilava sotto il portico con un boato stridente, pulsante. La voce non musicale che gli aveva parlato nell’orecchio aveva la stessa qualità sonora di quel rombo.
«Non è un delizioso temporale?»
Per la prima volta, Evelyn Sawtell sorrideva. L’effetto di quel sorriso sui suoi lineamenti era grottesco. Pareva un cavallo che avesse di colpo scoperto come si fa a sorridere ghignando.
«Ha saputo la notizia, naturalmente?» continuò. «Di Hervey?»
Hervey apparì improvvisamente al suo fianco. Sorrideva anche lui, ma in modo imbarazzato. Mormorò qualcosa che si perdette nel rumore del temporale, e stese automaticamente la mano, come se fosse stato sulla soglia di casa a ricevere gli ospiti.
Lo sguardo di Evelyn non abbandonava il volto di Norman. «Non è meraviglioso?» gli disse. «Naturalmente era scontato, tuttavia…»
Norman intuì l’accaduto. Si sforzò di prendere la mano profferta proprio al momento in cui l’altro stava per ritirarla nervosamente.
«Complimenti, vecchio mio» disse semplicemente.
«Sono molto fiera di Hervey» annunciò Evelyn con fare possessivo, come se fosse un ragazzino che ha ottenuto il premio di buona condotta. I suoi occhi seguirono la mano di Norman. «Si è tagliato?» Il ghigno parve un’aggiunta definitiva ai suoi lineamenti. Il vento ululava rabbiosamente. «Vieni, Hervey» disse, e si buttò nel temporale come se nulla fosse.
Hervey sgranò gli occhi dalla sorpresa. Mormorò qualcosa come una scusa a Norman, gli strinse la mano ancora a lungo, poi ubbidientemente corse a raggiungere sua moglie.
Norman li seguì con lo sguardo. C’era qualcosa di ripugnante nel modo con cui Evelyn Sawtelle sfidava le cateratte del cielo, inzuppandosi insieme al marito, per nessun altro scopo che quello di soddisfare la propria ostinazione. Evelyn vedeva che Hervey cercava di farle premura, ma lei resisteva. Un lampo divampò minacciosamente, senza provocare nessuna reazione apparente nella sua figura goffa, angolosa. Una volta ancora Norman fu conscio di un’emozione estranea, esplosiva dentro di sé, nel suo intimo.
E così quel suo cagnolino di marito, pensò Norman, sarà lui ad avere l’ultima parola nella politica educativa del ramo di sociologia. Ma allora perché Pollard mi ha fatto chiamare? Per porgermi le sue condoglianze?
Un’ora dopo usciva dall’ufficio di Pollard sbattendo la porta, irato oltre ogni dire, chiedendosi perché non gli avesse buttato in faccia le sue dimissioni. Essere interrogato come un bambino sulle sue azioni, dietro evidente istigazione di gente pettegola come Thompson, la signora Carr e Gracine Pollard! Dover ascoltare un sacco di asinerie sul suo atteggiamento, sullo spirito di Hempnell con insinuazioni appena velate relative al suo “codice morale”… Ma insomma!
Perlomeno aveva dato più di quanto avesse ricevuto. Perlomeno aveva spinto alla confusione quella voce pomposa e soave e fatto alzare più di una volta quei due ciuffetti bianchi che gli facevano da sopracciglia.
Era obbligato a passare davanti all’ufficio del decano. La signora Gunnison era in piedi accanto alla porta, come un enorme lumacone bavoso, dalla pelle ruvida, si disse Norman. E notò anche le calze storte, la borsetta traboccante che pareva il cucchiaio di una ruspa, l’eterna macchina fotografica appesa alla spalla. La sua esasperazione si diresse tutta su di lei.
«Sì, mi sono tagliato» le disse osservando la direzione del suo sguardo. La sua voce era rauca per l’animata discussione avuta con Pollard.
Poi gli venne in mente qualcosa e non stette a masticare le parole.
«Signora Gunnison, lei ha preso il diario di mia moglie, ieri sera, per sbaglio. Me lo restituisca, la prego.»
«Lei si sbaglia» rispose la donna in tono pacato.
«L’ho vista mentre usciva dalla mia stanza da letto, l’aveva in mano.»
Gli occhi della donna si socchiusero, diventarono due strette fessure. «In quel caso perché non me l’ha detto ieri sera? Lei è stanco, Norman. Lavora troppo, lo capisco.» Indicò con un cenno del capo l’ufficio di Pollard. «Sarà stata per lei una grossa delusione…»
«Le chiedo di restituirmi il diario!»
«…E non dovrebbe trascurare quel taglio» continuò senza scomporsi. «Non mi sembra ben medicato e sanguina ancora. Le infezioni talvolta sono maligne.»
Norman voltò i tacchi e se ne andò. Ma la vide nel riflesso scuro e incerto del vetro della porta esterna. Sorrideva.
Fuori dell’edificio, Norman si guardò la mano. Era chiaro che la ferita si era riaperta quando aveva picchiato il pugno sul tavolo di Pollard. Strinse un po’ di più la benda. Il temporale si era sfogato. La luce gialla del sole cadeva da una bassa cortina di nubi, a ovest, riflettendosi con esuberanza sui tetti bagnati e le finestre più alte degli edifici. Un resto di pioggia cadeva ancora dagli alberi.
Il campus pareva vuoto, una chiara risata proveniente dal dormitorio delle ragazze penetrò come un acido leggero nel silenzio. Si scrollò di dosso la collera e lasciò i suoi sensi assorbire la bellezza di uno scenario lavato di fresco.
Si congratulò con se stesso per questa sua capacità di godersi l’attimo presente. Era uno dei segni più evidenti di maturità.
Cercò di pensare con il cervello di un pittore, di definire le tinte e le sfumature, scoprendo il rosa sbiadito o il verde nascosto nelle ombre. L’architettura gotica, in fondo, aveva qualcosa di piacevole. Anche se non era funzionale, accarezzava l’occhio portandolo da una scultura di pietra all’altra. Per esempio quell’ornamento di foglie che orlava la torre di Estrey…
Improvvisamente la luce solare gli sembrò più fredda del ghiaccio, i tetti di Hempnell erano come i tetti dell’inferno, e il riso in lontananza era come un ghigno demoniaco. Prima di rendersi conto di ciò che faceva, aveva cambiato strada e si allontanava da Morton, lasciando il viale e camminando sull’erba bagnata, sebbene fosse arrivato solamente a metà del percorso.
Non c’era alcun bisogno di tornare allo studio, pensò rabbrividendo. Troppa strada da fare per quei pochi appunti. Potevano aspettare sino a domani. E perché non tornare a casa da una strada diversa, stasera? Perché prendere sempre la via diretta che passava sotto il portico grande che divideva Estrey da Morton, sotto quei cornicioni scuri, sporgenti… Ma che cos’era che…?
Si obbligò a guardare un’altra volta la finestra aperta del suo studio. Era vuota, adesso, com’era prevedibile. Quella cosa doveva essere stata una macchia nella sua vista, e la fantasia aveva completato l’immagine, come quelle volte in cui un puntino nero sul pavimento pare animarsi, diventare un ragno.
O era forse la tenda che il vento faceva volare fuori della finestra? No, un’ombra non poteva strisciare sul cornicione sottostante la finestra, un effetto ottico non poteva muoversi con tale lentezza, o possedere una sagoma così ben definita…
E il modo con cui la cosa aveva atteso, sbirciando entro la stanza prima di lasciarsi cadere all’interno, come… come una…
(Ma erano tutte sciocchezze e non c’era minimamente bisogno di andare a ritirare quegli appunti o chiudere la finestra. Sarebbe stato come arrendersi a una momentanea paura. Il tuono echeggiò in lontananza.)
…come una grande lucertola, del colore e della densità della pietra.
8
“…E da quel momento in poi si ritiene che l’anima si sia in certo qual modo fusa con la pietra. Se questa si spezza è un segno infausto per lui. Dicono che il fulmine abbia colpito la pietra e che colui che la possiede morrà fra non molto.”
Era inutile. I suoi occhi continuavano a vagare sulle righe stampate. Mise da parte il libro, La gemma d’oro e si adagiò nella poltrona. Molto lontano, a levante, il tuono brontolava ancora debolmente. Ma il contatto familiare della poltrona di cuoio sul quale sedeva gli dava una sensazione di sicurezza e di distacco.