“Supponiamo (per gioco, come se fosse un esercizio intellettuale), che io mi metta ad analizzare gli incidenti sfortunati e le cose immaginarie di questi tre giorni in termini di stregoneria.
“Il drago di cemento sarebbe un caso ovvio di magia per analogia. La signora Gunnison lo ha reso animato per mezzo di fotografie. È la vecchia teoria che consiste nell’agire sull’immagine anziché sull’oggetto, come l’esempio classico del pupazzo di cera sul quale si puntano gli spilli. Lei avrà unito varie fotografie per farne un ritratto animato, una specie di film, o forse è riuscita a fotografare l’interno del mio studio e su quella immagine ha spillato una foto del drago, pronunciando gli incantesimi del caso, naturalmente. O, più semplicemente, può aver introdotto una fotografia del drago in una delle mie tasche.” Cominciò a frugarsi nelle tasche poi gli venne in mente che si trattava di un gioco intellettuale, un piccolo diversivo per una mente stanca…
“Ma andiamo avanti. Abbiamo esaurito il caso della signora Gunnison. Passiamo a Evelyn Sawtelle. La sua registrazione della raganella (noto sortilegio per invocare il temporale) potrebbe fornire un’adeguata spiegazione per il vento dell’altra notte e per il temporale e il vento d’oggi, entrambi collegati ai Sawtelle. E quello stesso suono udito nel sogno…” Arricciò il naso per il ribrezzo.
Sentiva Tansy, sulla veranda posteriore, che chiamava la gatta facendo tintinnare la scodella del latte.
“Mettiamo in un’altra categoria gli atti di autolesionismo di oggi.” Il coltellino di ossidiana, la casseruola dal manico svitato, la puntina della moquette, il fiammifero con il quale un momento fa si era bruciato le dita.
Forse la lama del rasoio era stata stregata come la spada incantata, e l’ascia, che ferivano colui che le brandiva. Forse qualcuno gli aveva rubato il coltellino e l’aveva immerso nell’acqua in modo che la ferita rimanesse aperta. Quella era una vecchia e ben ancorata superstizione.
Un cane stava trotterellando lungo il marciapiede di fronte. Udiva distintamente il rumore attutito delle sue zampe.
Tansy stava sempre chiamando Totem.
Forse uno stregone gli aveva ordinato di autodistruggersi, un centimetro per volta, anzi un millimetro per volta stando alle ferite da rasoio. Il che poteva spiegare in una volta sola tutti gli atti di autolesionismo. Quella voce monotona udita nel sogno doveva averglielo imposto.
Il cane aveva voltato l’angolo del vialetto. Si udiva distintamente il rumore delle unghie che graffiavano il cemento.
Lo schema a base di tarocchi, quello che Evelyn Sawtelle aveva scarabocchiato sul blocchetto, poteva racchiudere un qualche meccanismo di comando. Le figure di aste raffiguranti l’uomo e il camion erano una truce allusione interpretate alla luce delle sue irrazionali avversioni.
Quel rumore che attribuiva alle unghie del cane, non ricordava più un cane. Era forse il ragazzino del vicino che trainava, a strattoni, un oggetto pesante non identificabile. Quel bambino passava il tempo a raccogliere rifiuti.
Si udì un: «Totem! Totem!» seguito da: «Va bene, se non vuoi venir dentro stattene fuori» e il rumore della porta che si chiudeva.
Poi sempre quella sensazione, molto comune, d’accordo, di una persona che stava alle sue spalle. Qualcuno più alto di lui, con le mani protese a ghermirlo. Solo che, se si voltava, quello si scansava. Qualcosa di simile gli era apparso nel sogno. Da lì, forse, era uscita quella voce. Nel qual caso…
Perse la pazienza. Era un esercizio mentale: benissimo. Ma buono per uno sciocco, e basta. Schiacciò nel piattino la sigaretta.
«Io, il mio dovere l’ho fatto, con quel gatto. E adesso se vuole la sua cena può fischiare.» Tansy si sedette sul bracciolo della poltrona e posò la mano sulla spalla di Norman. «Come va?»
«Non troppo bene» rispose con leggerezza.
«La cattedra?»
Fece un cenno affermativo. «L’ha avuta Sawtelle.»
Tansy imprecò senza ritegno. Gli fece piacere.
«Ti verrebbe quasi voglia di riprendere l’esercizio della stregoneria, non è vero?» poi si morse le labbra. Non aveva inteso dire questo.
Lei lo guardò attentamente.
«Cosa vorresti dire?» gli chiese.
«Scherzavo, ecco tutto.»
«Ne sei sicuro? Io so che ti sei crucciato molto per me in questi ultimi giorni, dal momento in cui hai scoperto tutto. Ti sei chiesto se fossi in preda a una nevrosi e mi studiavi per coglierne i sintomi. No, caro, non devi negarlo, era naturale da parte tua pensarlo. Sapevo che per un po’ di tempo mi avresti sospettata. Con la tua conoscenza della psichiatria non potevi ammettere che ci si possa sbarazzare di una fissazione così rapidamente. Sono stata così felice di togliermi tutto quel peso di dosso, che i tuoi sospetti non mi hanno amareggiata. Sapevo che avrebbero finito per scomparire.»
«Ma cara, te lo dico proprio francamente. No, non ho mai avuto alcun sospetto» protestò Norman. «Capisco che avrei dovuto averne, ma non ne avevo.»
I suoi occhi d’un verde grigio avevano un’espressione enigmatica. Disse lentamente: «E allora che c’è che ti preoccupa?»
«Nulla, assolutamente nulla.» A questo punto bisognava agire con prudenza.
Tansy scosse il capo. «Non è vero, tu sei preoccupato. Lo so che hai certi pensieri in mente che non mi vuoi dire. Ma non è neppur quello…»
Si voltò rapidamente a guardarla.
Lei fece di sì col capo e proseguì: «Cose che riguardano la cattedra. E poi quello studente che ti ha minacciato. E la ragazza Van Nice. Come puoi immaginare che Hempnell mi abbia risparmiato di sentire quei deliziosi scandali?» Sorrise mentre lui cercava di negare. «Oh, lo so che non sei il tipo da sedurre le dattilografe innamorate, perlomeno quelle di tipo nevrastenico.» Si rifece seria. «Quelle sono piccole cose, incidenti che capitano e si dimenticano. Non me li hai voluti raccontare perché temevi che io tornassi al mio desiderio di proteggerti. Non è vero?»
«Sì.»
«Ma ho l’impressione che la tua preoccupazione sia più profonda di così. Ieri e oggi ho perfino immaginato che tu volessi chiedermi aiuto e non osassi farlo.»
Lui tacque come se stesse considerando l’esatta maniera di formulare la sua risposta. Studiava invece la fisionomia di sua moglie cercando d’interpretare ogni segno espressivo della bocca e degli occhi.
Appariva molto controllata; ma quella era soltanto una maschera, pensò. In effetti, nonostante le sue espressioni sensate, poteva benissimo ritrovarsi sull’orlo della sua mania. Una piccola spinta, ad esempio una parola imprudente da parte sua e… Come aveva fatto ad immergersi così totalmente nelle proprie preoccupazioni e in quelle assurde proiezioni della sua fantasia eccentrica! Lì, a pochi passi da lui, c’era l’unica cosa che contasse, la mente nascosta dietro quella fronte liscia, dietro quegli occhi chiari, di un verde grigio, che gli imponevano di distogliere i suoi pensieri da quelle sciocchezze alle quali si era abbandonato nei giorni precedenti.
«A dire il vero» le disse «io mi preoccupavo per te. Temevo di incrinare la tua sicurezza raccontandoti quelle cose. Forse sono stato poco saggio a farlo e in qualche modo tu hai intuito tutto. Ma io a quel momento la pensavo così. Certo che, nel modo come ti senti ora, non può darti fastidio saperlo.»
Pensò: com’è facile mentire con convinzione a qualcuno che si ama.
Ma lei non si arrese subito. «Ne sei proprio certo? Ho la sensazione che ci sia dell’altro.»
Poi sorrise e cedette improvvisamente alla pressione delle sue braccia intorno alle spalle. «Dev’essere il sangue dei McKnight nelle mie vene, sai quei miei antenati scozzesi» disse lei ridendo. «Molto cocciuti, come tu sai. Ostinati sino alla mania. Quando si impuntano su una cosa, sono come invasati. Ma una volta abbandonato l’oggetto della loro ostinazione è finita, non ci pensano più. Ti ricordi la faccenda del mio prozio Peter? Abbandonò il suo ministero (era pastore protestante), e abiurò la religione cristiana il giorno stesso in cui dimostrò in modo convincente a se stesso che Dio non esisteva. Ed aveva settantadue anni!» Si udì il lungo, modulato brontolio del tuono.