Tornava il temporale.
«Ebbene, sono proprio contenta che le tue preoccupazioni concernessero me» continuò. «Mi lusinga e mi fa molto piacere.»
Sorrideva, felice; ma nei suoi occhi c’era sempre qualcosa di enigmatico, qualcosa che veniva trattenuto. Mentre lui si congratulava con se stesso per aver condotto bene il suo gioco, pensò improvvisamente che anche lei poteva aver giocato con lui un gioco analogo. Anch’ella poteva nascondere qualcosa di preoccupante perché voleva evitargli dei crucci. Forse lei tentava di proteggerlo dalle proprie tragiche preoccupazioni. La sua sottigliezza poteva superare quella del marito. Non c’era un motivo logico di sospettarlo, eppure…
«E se bevessimo qualcosa?» propose Tansy «e decidessimo se lasciare o no Hempnell per dei pascoli più verdi?»
Norman annuì, Tansy si alzò, attraversò la stanza a forma di L.
E pensare che si poteva convivere quindici anni con una donna, amarla per tutto quel tempo e non sapere ciò che si nascondeva dietro il suo sguardo.
Si udì il tintinnìo dei bicchieri sulla credenza, e la nota cordiale di una bottiglia piena posata sul piano del tavolo.
In quel momento, e con lo stesso ritmo del tuono, ma molto più vicino, si udì un atroce, un acuto grido di animale, un urlo da far rabbrividire. Era finito prima che Norman fosse balzato in piedi.
Mentre raggiungeva l’angolo del soggiorno, vide Tansy sulla porta della cucina. Era a pochi metri da lui, sui gradini dell’ingresso posteriore.
La luce della villa accanto rischiarava il loro cortile e videro il corpo disteso di Totem, con la testa schiacciata sul cemento.
Udì un suono flebile uscire, e poi fermarsi, dalla gola di Tansy. Poteva essere un rantolo, un sussulto, un ghigno…
La luce rendeva visibile qualcosa di più del corpo maciullato del gatto. Norman andò verso di esso e si fermò in modo da nascondere le troppo visibili impronte sul cemento vicino al gatto.
Forse erano state causate dal contatto con un mattone o un grosso sasso… forse dallo stesso oggetto che aveva ucciso il gatto, ma c’era qualcosa di talmente impressionante nella loro relativa posizione, che Norman non voleva che Tansy riuscisse a vederlo e che potesse ricamarci sopra con la fantasia.
Lei alzò gli occhi; non pareva impressionata.
«Farai meglio a tornare in casa» le disse.
«Tu vuoi…»
«Sì» rispose Norman.
Lasciò la porta aperta. Un attimo dopo scese e posò sulla balaustra della veranda un pezzo di tela pesante, il telo del gatto, ancora coperto di ciuffi di pelo. Poi entrò in casa e chiuse la porta.
Norman avvolse il gatto nel telo e andò a prendere la pala nel garage. Non perse tempo a cercare l’eventuale mattone, pietra o altro proiettile mortale, e neanche si fermò ad esaminare le pesanti impronte che gli parve di notare nell’erba vicino al cortile di servizio.
Alcuni lampi cominciavano a sfarfallare nel momento in cui la pala penetrò nella terra soffice. Norman fissò la sua attenzione sul lavoro del momento e scavò con regolarità, senza particolare premura. Quando ebbe schiacciato uniformemente l’ultima zolla di terra si diresse verso casa. I lampi erano più forti e gli intervalli di oscurità fra un lampo e l’altro parevano ancora più neri. Il vento si alzò e cominciò a strappare le foglie.
Norman non aveva fretta. E se un lampo avesse illuminato vagamente la sagoma di un grosso cane vicino alla porta d’ingresso? C’erano molti grossi cani nel vicinato, ma non erano feroci. Totem non era stata uccisa da un cane.
Con calma, ripose la pala nel garage e tornò a casa. Solo nel momento in cui si ritrovò nella stanza, i suoi pensieri si misero a galoppare per proprio conto.
Lo sprazzo luminoso del lampo, il più forte fino a quel momento gli mostrò il cane che voltava l’angolo della casa. Lo vide in un baleno. Era di color cemento. Camminava con le zampe rigide. Norman chiuse la porta e tirò presto il paletto.
In quel momento ricordò che le finestre dello studio erano rimaste aperte. Bisognava chiuderle subito.
Poteva piovere dentro.
9
Al suo ingresso nel soggiorno il viso di Norman, in apparenza, era sereno. Tansy sedeva nella sua poltrona, china in avanti, con un’espressione triste negli occhi. Le sue dita giocherellavano distrattamente con un pezzo di spago.
Il marito accese lentamente una sigaretta.
«Vuoi che beviamo quell’aperitivo adesso?» egli chiese senza mostrare né troppo interesse né troppa vivacità.
«No, grazie. Bevi tu se vuoi.» Le sue mani continuavano a fare e disfare i nodi dello spago.
Norman sedette nella poltroncina e prese in mano il suo libro. Da quella posizione la poteva osservare senza che lei se ne accorgesse. Ora che non aveva né buca da scavare né altri lavori manuali da compiere non poteva più respingere i suoi pensieri, perlomeno poteva lasciarli girare in una limitata, isolata sfera all’interno del suo cranio, senza che questi influissero sulla sua espressione, o deviassero il corso di altri pensieri, concentrati sulla protezione di Tansy.
“La stregoneria esiste” proclamavano i pensieri costretti in quella cerchia. “Qualcosa è stato spinto giù da un tetto per mezzo di un incantesimo. Le donne sono streghe, e lottano per far trionfare i loro mariti. Tansy era una strega. Ti proteggeva. Ma tu l’hai obbligata a smettere.
“In questo caso” rispondeva subito l’altra parte della sua mente “perché Tansy non si accorge di ciò che sta accadendo? Non si può negare che si comporti come una persona sollevata e felice.
“Sei sicuro che non se ne sia accorta o stia per accorgersene?” ripresero i pensieri trattenuti nella cerchia. “Inoltre, perdendo gli strumenti della sua magia, ha probabilmente perso la sua sensibilità alla magia. Uno scienziato, per esempio, senza i suoi strumenti, il microscopio e il telescopio, al pari di un qualsiasi selvaggio non potrebbe vedere né i germi del tifo né le lune di Marte. Il suo naturale corredo sensorio potrebbe essere perfino inferiore a quello di un selvaggio”.
I pensieri imprigionati si agitarono violentemente, come le api che cercano impazzite un’uscita dall’alveare chiuso.
«Norman» disse Tansy improvvisamente senza guardarlo. «Hai trovato e bruciato quel talismano chiuso nel medaglione dell’orologio?»
Ci pensò un attimo. «Sì, l’ho bruciato» disse senza dar peso alle sue parole.
«Mi ero dimenticata di quello, ne avevo sparsi tanti in giro.»
Norman voltò una pagina, poi un’altra. Il tuono vibrò con violenza e la pioggia cominciò a tamburellare sul tetto. «Norman? Hai anche bruciato il diario, non è vero? Hai fatto bene, naturalmente. L’avevo tenuto perché non conteneva fatture già attuate, solo le formule, e così, molto illogicamente, pretendevo con me stessa che non contasse. Ma tu l’hai bruciato, vero?»
Era difficile poter rispondere. Gli pareva di giocare agli oggetti nascosti: “caldo, caldo — freddo, freddo” e che Tansy stesse per diventare pericolosamente “calda”. I pensieri chiusi nella sfera ronzavano trionfanti: vedi, ora la signora Gunnison possiede il diario; conosce tutti gli scongiuri protettivi di Tansy.
Ma riuscì a mentire. «Sì; l’ho bruciato. Mi dispiace; ma pensavo che…»
«È giusto» disse Tansy. «Hai fatto bene.» Le sue dita giocavano sempre più nervosamente con lo spago, ma senza guardarlo.
I lampi illuminavano tratti di strada e di alberi, attraverso la finestra. Il tamburellare dell’acqua sul tetto divenne una gragnuola di colpi. Ma attraverso quel rumore assordante gli pareva di udire il graffio delle zampe sul cemento del vialetto. Era ridicolo: la pioggia e il vento facevano troppo baccano.