Quando posò sul tavolo il bicchiere di Norman, vi era dentro solo il ghiaccio.
«Ecco, ora siamo fratelli di sangue, o qualcosa del genere. Tu versatene un altro.»
«Era già il secondo» le disse.
«Però! Credevo di averti defraudato della tua bibita!»
Sedette sull’orlo del tavolo e alzò l’indice in direzione del suo viso: «Caro signore, voi avete bisogno di riposo. O di distrazione. Non so quale dei due. Forse di tutti e due. Allora vi faccio questa proposta: una cena fredda, dei sandwich, poi, quand’è buio, prendiamo la macchina, e facciamo una passeggiata sulla collina. Sono anni che non lo facciamo. Che ne pensate, mio signore?»
Egli esitò. Con l’aiuto dell’alcool i suoi pensieri stavano cambiando direzione. Metà della sua mente lavorava disperatamente per trovare una spiegazione all’allucinazione che aveva testé provato, e a quello slancio suicida, inspiegabile e a… non ricordava che altro. L’altra metà della sua mente si arrendeva al buon umore di Tansy. Questa allungò la mano e gli prese il naso fra le dita. «E allora?»
«Va bene» le disse.
«Ehi! Potresti mostrare un po’ più di interesse!» Scivolò dal tavolo, andò in cucina e aggiunse da sopra la spalla: «Ma quello verrà più tardi.»
Era carina, provocante. Norman non vedeva nessuna differenza fra la ragazza di quindici anni fa e quella di adesso. Pensò che era la centesima prima volta che la vedeva.
Sentendosi quasi rilassato, o perlomeno, distratto dai suoi pensieri, si sedette sulla poltrona. Ma, all’atto di piegarsi, sentì qualcosa di duro, di angoloso contro la coscia. Si alzò d’un balzo, ficcò la mano in tasca e estrasse la rivoltella di Theodore Jennings.
La guardò spaventato, incapace di ricordare quando l’avesse presa dal cassetto, nel suo studio. Poi diede un’occhiata veloce in cucina, e corse fino al comò della stanza da letto, aprì l’ultimo cassetto in basso e nascose l’arma sotto una pila di biancheria.
Quando arrivarono i sandwich, stava leggendo il giornale del pomeriggio. Era un articolo di cronaca, nella quinta pagina, che aveva attratto la sua attenzione.
Un perfetto scherzo vale la pena di un bel disturbo e di un gran spreco di forza. Perlomeno così la pensa un gruppo di studenti di Hempnell, non ancora identificati. Ma ci chiediamo come l’abbia presa il professore Norman Saylor quando, questa mattina, guardando fuori della finestra ha visto un doccione di pietra enorme (non peserà meno di un quintale e mezzo) ritto in mezzo al prato rasato della sua casa. Era stato asportato dal tetto di un edificio del collegio. Come abbiano fatto gli studenti a staccarlo, farlo scendere dal tetto e trasportarlo sino alla casa del prof. Saylor, è tuttora un mistero.
Quando al preside Pollard è stato chiesto di commentare l’accaduto, ha risposto ridendo: “È forse colpa del nostro programma di educazione fisica, che fa dei nostri giovani degli uomini eccezionalmente robusti”.
Il preside Pollard, al momento in cui l’abbiamo intervistato, stava uscendo per recarsi al Lions’ Club dove avrebbe pronunciato il suo discorso su “La grande Hempnell — il collegio e la città”. (Vedi a pagina 1 il testo del discorso).
C’era da aspettarselo, le solite inesattezze. Non era un doccione. I doccioni sono grondaie, mostri che sputano acqua. E neppure un accenno al fulmine. Il giornalista l’aveva probabilmente trascurato perché non quadrava con la sua idea convenzionale di un articolo cosiddetto non convenzionale. Eppure i giornali adoravano le coincidenze. Ma perbacco! Lasciavano passare le migliori.
E, per finire, il consueto colpetto di pollice che riesce a trasformare un fatto di cronaca in un inserto pubblicitario a favore dell’educazione fisica impartita a Hempnell. Bisognava ammettere che l’ufficio pubblicità di Hempnell era di un’indiscutibile efficienza.
Tansy gli portò via di mano il giornale.
«Il mondo può attendere» disse. «Eccomi qui, assaggia un po’ del mio sandwich.»
11
Era già notte quando si avviarono su per la collina. Norman guidava con prudenza, rallentando agli incroci. L’allegria di Tansy riusciva a tener desta solo una metà dei suoi pensieri.
Lei sorrideva con fare misterioso. Si era cambiata e indossava ora un vestito bianco, sportivo. Sembrava una delle sue alunne.
«E potrei anche essere una strega, che ti trascina a un convegno in cima alla collina. Un nostro piccolo privato Sabba.»
Norman trasalì, si disse che Tansy, quando scherzava a quel modo, faceva una coraggiosa caricatura del suo comportamento precedente. Non doveva a nessun costo lasciarle vedere l’altra metà dei suoi pensieri. Non le avrebbe giovato scoprire quanto suo marito si preoccupasse di se stesso.
Si lasciarono alle spalle le luci della città. Dopo aver percorso quasi un paio di chilometri voltarono e presero la strada della collina. Il fondo stradale era in uno stato peggiore di come lo ricordavano dall’ultima volta che vi erano andati (quand’era stato, dieci anni fa?). E gli alberi erano più folti. I loro rami spazzavano il parabrezza della macchina.
Quando emersero nella radura, in cima al colle, una luna rossa al suo secondo giorno di plenilunio, stava sorgendo.
Tansy la indicò col dito dicendo: «Hai visto? Ho organizzato tutto a puntino. Ma dove sono gli altri? Un tempo vi erano sempre due o tre macchine, quassù. Con una notte come questa, poi!»
Norman fermò la macchina sul ciglio della piazzetta. «La moda, nelle migrazioni degli innamorati, cambia come tutto il resto» le disse. «Siamo su una rotta in disuso.»
«Sempre il sociologo che torna a galla!»
«Penso di sì. Forse la signora Carr ha scoperto anche lei questo posticino, e gli studenti sono fuggiti più in basso, nei campi.»
Tansy appoggiò la testa alla sua spalla. Norman spense le luci: la luna rendeva soffici le ombre.
«Ti ricordi? Facevamo così a Gorham» mormorò Tansy «quando io seguivo i tuoi corsi e tu eri un giovane e austero assistente. Fino al giorno in cui scoprii che non eri diverso dagli altri ragazzi, solo un po’ più in gamba. Ti ricordi?»
Annuì e le prese la mano. Guardò la città, in basso; vide le luci che delimitavano il collegio a causa dei fari posti sul perimetro del parco e destinati a snidare le coppiette. Gli edifici gotici inondati di luce parevano in quel momento simboleggiare tutto un mondo di spietata concorrenza intellettuale e di tradizionalismo geloso, un mondo al quale Norman, in questo momento, si sentiva infinitamente estraneo.
«Io mi chiedo perché ci odino tanto» fece lui quasi senza pensarci.
«Cosa vai dicendo?» disse Tansy, ma era una domanda oziosa.
«Voglio dire tutti gli altri professori, o la maggior parte di essi. È forse perché facciamo cose come questa, di adesso?»
Tansy rise. «Finalmente ti sei svegliato. Ma, caro, cose come questa le facciamo piuttosto di rado!»
Norman andava avanti con il suo ragionamento. «È un mondo diabolico, fatto di concorrenza e di gelosia. La concorrenza, all’interno di una istituzione, può essere più malefica che altrove, perché è circoscritta, non credi?»
«Io l’ho tollerata per anni» rispose Tansy con semplicità.
«Naturalmente è un sentimento meschino. Ma i sentimenti meschini finiscono per sopraffare gli altri. La loro dimensione si adatta alla mente umana.»
Guardò di nuovo Hempnell e cercò di valutare la quantità di ostilità e di gelosia che gli si era inevitabilmente accumulata sul capo. Sentì un brivido gelato corrergli sulla pelle. Comprese dove lo avrebbe portato quel giro di pensieri. La metà più oscura della sua mente si rianimò.
«Senti, caro filosofo» disse Tansy. «Bevi un sorso di questo.»
Gli porgeva una piccola fiasca d’argento.
Norman la riconobbe. «Non mi sarei mai immaginato che tu l’avessi conservata tutti questi anni.»