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«Ti ricordi la prima volta che ti offrii da bere da questa fiaschetta? Penso che tu sia stato un po’ scandalizzato.»

«Però accettai di bere.»

Sapeva di spezie. Ricordava tante cose. Lo riportava a quei buffi anni della proibizione, gli anni di Gorham e della Nuova Inghilterra.

«Che cos’è, cognac?»

«Greco. Dammene un po’.»

I ricordi sommersero la metà oscura della sua mente che sparì sotto l’ondata delle reminiscenze. Guardò i capelli lisci di Tansy, i suoi occhi dai riflessi di luna. “Certo è una strega” pensò con leggerezza. “È Lilith, Ishtar. Glielo dirò.”

«Ti ricordi di quella notte» le disse «in cui dovemmo lasciarci scivolare giù per l’argine per non farci scoprire dal guardiano notturno di Gorham? Che scandalo, se ci avessero colto sul fatto!»

«Ah, sì! e quella volta…»

Ridiscero la collina. La luna, dopo un’ora, era già alta nel cielo. Egli guidava lentamente. Non c’era bisogno di imitare le pazze abitudini degli anni del proibizionismo. Un camion gli passò accanto, scoppiettando. “Non prima di due settimane” gli aveva detto la voce. Accidenti! Chi si credeva di essere? Giovanna d’Arco, che udiva le voci?

Si sentì esilarato. Voleva raccontare a Tansy tutte le cose ridicole che gli avevano attraversato la mente in quegli ultimi giorni. Ne sarebbe venuta fuori una bella storia di fantasmi. Non gliel’aveva voluta dire prima e c’era stato un motivo. Ma ora questo motivo gli pareva insignificante, faceva parte integrale della vita di Hempnell, stipata, corrotta, supercauta, dalla quale avrebbero dovuto evadere più spesso. Che gusto c’era a vivere, se a ogni momento ci si doveva ricordare di non dir questo, di non menzionare quello, per non turbare Tizio, Caio o Sempronio?

Tornato a casa, appena entrato nella stanza di soggiorno e mentre Tansy si lasciava cadere di peso sul divano, egli cominciò a dire:

«Senti Tansy, a proposito di quella faccenda della magia… ti volevo dire…»

Fu un colpo inatteso e fulmineo. Una forza, reale o irreale, lo investì. E un momento dopo si trovò seduto in poltrona, lucidissimo di mente. Il mondo esteriore era come una gelida pressione sui suoi sensi, il mondo interiore una spirale vorticante di pensieri incoerenti, il futuro una oscura galleria lunga due settimane. Era come se una mano enorme, callosa, gli avesse tappato la bocca e un’altra mano contemporaneamente l’avesse afferrato alle spalle, scosso e scaraventato sulla poltrona di cuoio.

Come se?

Si guardò intorno con disagio.

Erano poi state delle mani?

Apparentemente Tansy non aveva notato nulla. Il suo viso era un ovale chiaro nella penombra. Non gli chiese cosa stava per dirle.

Egli si alzò, andò titubante sino alla stanza da pranzo e si avvicinò alla credenza versandosi un whisky. Cammin facendo aveva acceso la luce.

Ma allora, non poteva dir nulla a Tansy né parlare con chicchessia di queste cose, anche se l’avesse voluto? Ecco perché nessuno sentiva mai parlare di vittime della magia, disse tra sé. E anche perché queste non riuscivano mai a liberarsi dall’incubo, anche se i mezzi d’evasione erano a portata di mano. Non era per debolezza, mancanza di volontà. Erano sorvegliati continuamente. Erano come il gangster che qualcuno viene a prelevare in un locale notturno con l’apparente scusa di fare un giro in macchina. Chiede permesso ai suoi rumorosi compagni di tavolo, ride cordialmente con loro, si ferma cammin facendo per scambiare due parole con gli amici, adocchiare le ragazze carine, e questo perché dietro di lui vi è la scorta delle rivoltelle facili, i gangster dalla sciarpa di seta bianca, con la mano infilata nella tasca destra del soprabito nero dal colletto di velluto. Inutile morire subito. Meglio stare al gioco. Vi può essere ancora una possibilità di cavarsela.

Ma era roba da film giallo, da romanzo giallo!

Anche le mani callose.

Si guardò nello specchio della credenza, inchinandosi alla sua immagine.

«Vi presento il professor Saylor, distinto etnologo e assertore convinto di scienze occulte.»

Il viso riflesso nello specchio esprimeva più terrore che ribrezzo.

Si versò un’altra volta da bere, versò del whisky per Tansy e portò i bicchieri nel soggiorno.

«Facciamo un brindisi alla cattiveria» disse Tansy. «Ti rendi conto che non ti sei più ubriacato da Natale?»

Sorrise. Ubriacarsi, ecco proprio ciò che avrebbe fatto un gangster del cinema, per godersi un momento d’oblio dopo che il Capo lo aveva mostrato a dito. Non era una cattiva idea.

Lentamente, e sulle prime con timidezza un po’ malinconica, tornò l’euforia provata sulla collina. Chiacchierarono, suonarono dei vecchi dischi, si raccontarono barzellette così vecchie da parere nuove. Tansy strimpellò qualcosa sul pianoforte, inni religiosi, inni patriottici, canti di lavoratori, di rivoluzionari, blues, romanze di Brahms, di Schubert, piano all’inizio, poi a voce spiegata.

Continuavano a evocare ricordi. E a bere.

Tuttavia, come in una luminosa sfera di cristallo, i pensieri ostili roteavano paurosamente nel cervello di Norman. L’alcool gli permetteva di contemplarli spassionatamente senza doverli respingere di continuo in nome del buon senso. Con la semplicità di ragionamento tipica dello stato d’ubriachezza, la sua mente erudita chiamava a raccolta esempi generalizzati di stregoneria. Per esempio: se non era probabile che gli impulsi autolesionisti fossero imputabili a magia. Quegli impulsi universali erano in diretta contraddizione con le leggi della conservazione e della sopravvivenza. Edgar Poe li aveva definiti, con la sua infinita fantasia, il demonietto della perversione, e gli psicoanalisti avevano faticosamente ipotizzato un desiderio di morte. Era molto più semplice attribuirli alle forze malefiche, estranee all’individuo, operanti con mezzi non ancora identificati e quindi considerati soprannaturali.

Le esperienze di quei due ultimi giorni si potevano dividere in due categorie. La prima comprendeva quegli eventi sfortunati ma naturali e gli antagonismi dai quali Tansy lo aveva protetto con i suoi sortilegi. Il tentato omicidio di Jennings si poteva facilmente assegnare a quella categoria. E vi erano molte ragioni di includervelo, Jennings era senza dubbio uno psicopatico. Quell’aggressione egli l’avrebbe tentata anche prima se Tansy non vi avesse opposto una barriera. Venuto a mancare quello schermo protettivo, appena Norman aveva bruciato l’ultima “manina”, la volontà omicida era improvvisamente maturata nel cervello di Jennings come sboccia di colpo un fiore in una serra. Jennings stesso lo aveva ammesso. Aveva detto: non mi ero reso conto fino a un momento fa…

L’accusa di Margaret Van Nice, l’interesse improvviso di Thompson per i suoi trascorsi extra-professionali, e la scoperta della laurea di Cunningham da parte di Sawtelle, anche quelli probabilmente appartenevano alla stessa categoria.

Nell’altra (stregoneria attiva e malefica diretta contro la sua persona) avrebbe…

«Si può sapere a che pensi?» disse Tansy guardandolo al disopra del suo bicchiere.

«Pensavo al ricevimento dello scorso Natale» replicò pacatamente ma con voce incerta «e a Welby che camminava a quattro zampe imitando un San Bernardo, con lo scendiletto di pelle d’orso sulla schiena e la fiaschetta di whisky appesa al collo, e mi chiedevo perché i giochi più brillanti appaiono così banali dopo un certo tempo. Preferisco comunque essere banale che rispettabile.»

Si sentì molto fiero dell’abilità con la quale aveva evitato la trappola tesagli da sua moglie. E nello stesso tempo considerava Tansy come una strega e una donna potenzialmente nevrotica che a ogni costo bisognava difendere dalle allusioni pericolose. L’alcool lo faceva ragionare a brani staccati, che non avevano alcun contatto reciproco.

Le cose accaddero a piccoli balzi successivi: la sua coscienza si oscurò, sebbene negli intervalli di lucidità i suoi pensieri si manifestassero con esagerata solennità professionale.