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Si fece la barba senza fretta e con piacere. Il rasoio si comportò benissimo.

Mentre finiva di vestirsi, un dubbio lo assalì. Una volta ancora frugò nella sua memoria, chiuse gli occhi come un uomo che ascolta un rumore impercettibile.

Nulla. Neppure la minima traccia di paura morbosa.

Fischiettando entrò in cucina.

Nemmeno un segno della colazione! Vicino all’acquaio vi erano i bicchieri sporchi, bottiglie vuote, un cassetto del freezer pieno di acqua tiepida.

«Tansy!» chiamò. «Tansy!»

La cercò per tutta la casa col vago timore che si fosse addormentata in giardino prima di andare a letto. Avevano entrambi bevuto come spugne. Si recò nel garage per assicurarsi che la macchina fosse a posto. Forse era andata all’emporio a comprare qualcosa per la colazione. Ma tornando in casa si sentì ansioso.

Guardò nuovamente nello studio e notò la boccetta dell’inchiostro rovesciata sul tavolo e accanto a questa un pezzo di carta, un angolo del quale era proprio a contatto della macchia che cominciava ad asciugare. Il messaggio di Tansy per un pelo non si era macchiato.

Era scarabocchiato in fretta. Due volte la punta del pennino aveva bucato la carta, ed era interrotto nel bel mezzo di una frase, ma era senz’altro la calligrafia di Tansy.

«Per un attimo “esso” ha smesso di spiarmi. Non immaginavo che sarebbe stato troppo forte per me. Non sono due settimane! Solo due giorni! Non tentare di seguirmi. L’unica via di scampo è quella di seguire esattamente le mie istruzioni. Prendi quattro… [parola illeggibile]… bianche, lunghe quattro pollici…»

I suoi occhi correvano alla macchia che usciva dal calamaio e terminava nell’impronta poco chiara di una mano, e involontariamente la sua immaginazione ricostruì la scena. Tansy aveva scritto con furia disperata, guardandosi continuamente alle spalle. Poi esso si era accorto di ciò che stava facendo e l’aveva percossa sulla mano. Ricordò la stretta di quella mano, enorme, ruvida, e trasalì. E poi… poi aveva riunito le sue cose in una borsa, silenziosamente, sebbene lui, Norman, non corresse il rischio di svegliarsi; era uscita di casa ed era andata per la strada. Se qualcuno l’avesse incontrata lei avrebbe parlato allegramente, avrebbe anche riso, perché quella cosa faceva buona guardia dietro di lei, spiando ogni sua mossa avventata, ogni tentativo d’evasione.

Ed era fuggita.

Gli venne voglia di correre per la strada, di chiamarla urlando il suo nome.

Ma l’inchiostro versato era secco, si era trasformato in placche nere sul bordo della carta. Dovevano essere trascorse alcune ore. Dov’era fuggita, nella notte? In un punto che era per lei il termine dell’oscura galleria? Non più “due settimane”. Soltanto “due giorni”…

In un baleno di acuta lucidità ne comprese la ragione. Se non fosse stato ubriaco la sera prima lo avrebbe indovinato.

Era una delle mosse più note nel mondo della magia: la trasferta del male, come lo stregone trasferisce la malattia dall’uomo a una pietra, o a un nemico, o a se stesso perché è più forte e in grado di combatterlo meglio. Tansy aveva attirato la maledizione su se stessa. L’altra notte avevano spartito il cibo, bevuto nello stesso bicchiere. Aveva usato mille stratagemmi perché Norman rimanesse sempre vicino a lei. Era evidente! Si spremette il cervello per riafferrare le ultime parole che gli aveva detto Tansy: “Tutto ciò che è tuo è mio”. Tutto ciò che è tuo è mio?

Lei intendeva la minaccia che pesava su di lui.

E lui aveva risposto: “Sì”.

Un momento! cosa mai stava pensando?

Alzò gli occhi sugli scaffali ove si allineavano libri perfettamente legati. Si stava nuovamente abbandonando allo stesso nauseante gioco dei giorni scorsi, mentre qualcosa di serio, di importante era in pericolo.

No, non si trattava di presenza soprannaturale, non vi era nessun esso, nessun guardiano: solo uno scherzo dei loro nervi malati, i suoi e quelli di Tansy. Era stato lui a suggerire a sua moglie tutte quelle sciocchezze, ecco cos’era veramente successo. Aveva instillato nella mente di Tansy l’espressione della sua morbosa fantasia.

In stato di ubriachezza chissà che cosa non le aveva confidato. Tutte le sue infantili montature. E ciò aveva influito sulla natura suggestionabile di lei, lei che aveva creduto alla magia, finché era maturato in lei il proposito di trasferire su se stessa la minaccia che pesava sul marito. Si era convinta che questa trasferta fosse realmente avvenuta. Quindi era fuggita, Dio sa dove.

Era tutto molto preoccupante.

Si mise a studiare di nuovo l’illeggibile messaggio. E si chiese cosa fossero mai quelle quattro cose di quattro pollici, bianche.

Il campanello dell’ingresso trillò leggermente. C’era una lettera nella cassetta postale. L’aprì con uno strappo. L’indirizzo era scritto con la matita morbida e il segno della graffite era macchiato. Ma riconosceva la calligrafia. Il messaggio era scritto con mano malferma e così irregolare che gli ci volle un po’ per decifrarlo. Cominciava a metà di una frase e finiva a metà d’un’altra.

…quattro corde bianche di quattro pollici, un pezzo di un budello di gatto, un po’ di platino o di iridio, una pietra magnetica, una puntina di grammofono che abbia suonato solo la Nona Sonata di Scriabin, quindi legare…

Erano le corde, naturalmente. E basta. Era il seguito del primo messaggio, con la sua bizzarra formula. Tansy era veramente convinta di avere un guardiano che la sorvegliava e poteva comunicare con Norman solo in quei rari momenti in cui pensava che l’attenzione di quel guardiano fosse rivolta altrove. Sapeva benissimo anche Norman di che cosa si trattava. Chi è in preda a un’ossessione, può convincere se stesso di qualsiasi assurdità.

Guardò il timbro postale. Riconobbe il nome di una città situata parecchie miglia a est di Hempnell. Non ricordava neanche un nome, sia di parenti, sia di amici, che abitassero in quella città, o qualsiasi altro particolare. Il suo primo impulso fu di tirar fuori la macchina e correre in quel luogo. Ma che cosa avrebbe fatto, una volta arrivato lì?

Guardò nuovamente la lettera. Il telefono si mise a suonare. Era Evelyn Sawtelle.

«È lei, Norman? Per piacere vorrei parlare con Tansy. Le spiace farla venire al telefono?»

«Dolente, non è in casa.»

Evelyn Sawtelle non parve sorpresa. La sua seconda domanda arrivò troppo presto. «Dov’è, posso telefonarle?» Egli stette un momento a pensare, poi disse: «E andata in campagna, a visitare alcuni amici. Se lei ha un messaggio glielo trasmetterò volentieri.»

«No, voglio parlarle… Mi dia il numero di telefono dei suoi amici.»

«Non hanno telefono» rispose seccamente.

«Ah, no? Pazienza, non è cosa molto importante.» La sua voce pareva compiaciuta, come se il malumore di Norman le avesse procurato soddisfazione.

«Chiamerò più tardi. Ora ho da fare. Hervey è così impegnato, con le sue nuove mansioni… Arrivederci.»

Norman posò il ricevitore. Perché diavolo… Una risposta gli balenò per la mente. Forse Evelyn aveva visto Tansy mentre se n’andava e aveva subodorato qualche motivo di pettegolezzo che voleva solo verificare. Tansy era forse uscita con una valigia in mano?