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Diede un’occhiata nello spogliatoio di sua moglie. La piccola valigia era sparita. I cassetti erano aperti, si vedeva che aveva impacchettato tutto con premura. E il denaro? Guardò nel proprio portafoglio. Era vuoto. Mancavano i quaranta dollari.

Non poteva far molta strada con soli quaranta dollari. L’irregolarità della calligrafia nel secondo messaggio suggeriva fosse stato scritto in treno o in corriera. Consultò gli orari e vide che molti treni e molte corriere passavano dalla città presso le varie stazioni, fece inchieste prudenti; ma non ne ricavò nulla.

Avrebbe voluto compiere tutti i passi che si tentavano quando qualcuno sparisce, ma si trattenne. Che cosa avrebbe fatto? Mia moglie è sparita. Soffre di ossessioni che… E se l’avessero trovata e fatta interrogare da un dottore, esausta com’era, nello stato mentale in cui si trovava prima ancora che lui potesse raggiungerla?

No, doveva sbrigarsela da solo. Ma se non riusciva a scoprire l’indirizzo del luogo dov’era diretta, non gli rimaneva altra scelta. Bisognava recarsi alla polizia e inventare qualche bugia per mascherare i fatti. Aveva scritto: due giorni. Se lei credeva di essere destinata a morire fra due giorni, non poteva bastare quell’ipotesi a giustificare la sua denuncia?

Verso sera tornò a casa, facendo tacere la folle speranza che lei fosse tornata mentre lui era assente. Il fattorino degli espressi stava risalendo in macchina. Norman si avvicinò.

«Niente per Saylor?»

«Sissignore, è nella cassetta.»

Il messaggio era più lungo questa volta, ma altrettanto difficile a decifrare. Diceva:

Finalmente ha rivolto altrove la sua attenzione. Se io mi controllo non fa in tempo a notare i miei pensieri. Ma è stato difficile per me imbucare l’ultima lettera. Norman, devi fare ciò che ti dico. I due giorni terminano domenica a mezzanotte. Poi la Baia. Devi seguire le mie istruzioni. Prendi le quattro corde, e fa’ un nodo a occhiello, un nodo margherita, un nodo bocca di lupo e un nodo piano. Col catgut fa’ un nodo scorsoio. Poi aggiungi…

Guardò il timbro. Quella città era trecento chilometri più a est, non per ferrovia, a quanto ricordava. Il che restringeva notevolmente le possibilità d’indagine.

Una parola in quella lettera echeggiava nella mente di Norman, fino a diventare insopportabile. Baia. Baia. Baia.

Gli venne in mente un pomeriggio torrido di molti anni fa, poco tempo prima che si sposassero. Erano seduti sull’orlo di un piccolo pontile, molto vecchio e in cattivo stato. Norman ricordava l’odore di salsedine, le assi grigie, pericolanti di quel pontile.

«È strano» gli aveva detto Tansy, contemplando l’acqua verdastra. «Io ho sempre pensato che la mia esistenza sarebbe finita qui. La cosa non mi fa paura, tant’è che sono sempre tornata qui a fare i bagni. Ma anche quand’ero bambina guardavo la baia, talvolta verde, talvolta azzurra, oppure grigia, o agitata, o splendente sotto la luna, o avvolta nella nebbia, e pensavo: “Tansy, la Baia finirà per inghiottirti. Ma ci vorranno anni e anni”. Buffo, no?

Lui aveva riso e l’aveva stretta a sé, e l’acqua verde aveva continuato a lambire la base delle palafitte coperte di alghe. Norman era andato quella volta per conoscere la famiglia di lei, quando il padre di Tansy era ancora vivo, nella sua casa di Bayport, sulla costa meridionale della baia di New York.

La galleria oscura terminava per lei nella Baia, la sera successiva a mezzanotte.

Fece alcune telefonate, prima alle corriere e poi alle ferrovie e agli aerei. Era impossibile trovare un posto in aereo, ma alcuni treni notturni potevano portarlo a New York con un’ora di anticipo sull’arrivo della corriera sulla quale Tansy probabilmente viaggiava, secondo i suo calcoli dedotti dai luoghi e dall’ora segnati sui timbri postali. Aveva tutto il tempo di fare la valigia e incassare un assegno mentre andava in stazione.

Spiegò le tre lettere sul tavolo, la prima, scritta con l’inchiostro, e le due altre a matita. Lesse ancora una volta la bizzarra e incompleta formula magica.

Aggrottò la fronte. Se vi fosse una sola possibilità su un milione, uno scienziato potrebbe trascurarla. O il comandante di un esercito accerchiato rinuncerebbe a uno stratagemma solo perché questo non è citato nei libri? Tutto il problema pareva inintelligibile. Ieri, avrebbe forse significato qualcosa per lui, emotivamente. Oggi gli sembrava tutta una sciocchezza. Domani invece, avrebbe forse rappresentato l’ultima, l’unica possibilità di una soluzione, possibilità da non lasciarsi sfuggire a nessun costo.

Ma come poteva, lui, venire a patti con la stregoneria?

“Norman, tu devi fare ciò che ti dico” Le parole erano chiare.

Dopo tutto, quell’accozzaglia di oggetti sarebbe forse occorsa per tranquillizzare Tansy se l’avesse trovata in uno stato di confusione mentale.

Andò in cucina e prese un gomitolo di spago bianco. Rovistò nell’armadio per trovare la sua vecchia racchetta e tagliò le due corde centrali. Potevano andare per il budello.

Il camino non era stato ripulito da quando avevano bruciato tutte le cianfrusaglie nascoste nel comò di Tansy. Frugò sui bordi con l’attizzatoio finché trovò un sasso annerito che attirava gli spilli.

Rintracciò il disco di Scriabin, la Nona Sonata, e mise in moto il grammofono con una puntina nuova. Guardò l’orologio e si mise a passeggiare in su e in giù per la stanza con impazienza. Gradatamente la musica s’impadronì di lui. Non era una musica facile. C’era in essa qualcosa di seducente e di esasperante allo stesso tempo, con la sussurrata melodia, quell’accompagnamento dondolante, quelle vibrazioni nel tremolo, e gli elaborati ornamenti che si rincorrevano da un’estremità all’altra della tastiera. Irritava i nervi.

Gli tornarono alla memoria i vari commenti che aveva sentito a proposito di quella sonata. Tansy non gli aveva forse detto che Scriabin aveva chiamato quella sonata una Messa nera e che odiava suonarla? Scriabin, che aveva ideato un organo dei colori, e aveva tentato di tradurre il misticismo in musica, ed era morto di un’inconsueta infezione al labbro: Scriabin, un russo dal viso infantile con un paio di baffi ricurvi, enormi. Gli apprezzamenti critici che Tansy gli aveva riferito galleggiavano qua e là nella sua memoria. “La velenosa Nona Sonata… la più perfida musica che sia mai stata composta…” Ridicolo! Come faceva la musica a essere qualcosa di diverso di un’astratta combinazione di suoni?

Eppure, ascoltandola, si era portati a pensarla diversamente.

Il movimento era sempre più rapido. Il delizioso tema del secondo tempo si guastò, si distorse in qualcosa di rauco e di dissonante (la marcia dei dannati), che s’interruppe bruscamente al momento in cui aveva raggiunto un grado di acutezza intollerabile. Poi veniva una ripetizione del primo tema mormorato, che finiva su una nota morbida ma irritante nella parte bassa della tastiera.

Tolse la puntina, la chiuse accuratamente in una busta e le unì al resto degli oggetti. Soltanto allora si chiese perché, se lui riuniva tutte quelle cose solo per tranquillizzare sua moglie, si era dato la pena di suonare la Nona Sonata con quella puntina. Una puntina nuova sarebbe servita ugualmente allo scopo. Scrollò le spalle. Ripensandoci, strappò dal dizionario enciclopedico la pagina che portava l’elenco illustrato dei nodi.

Lo squillo del telefono lo fermò mentre stava per uscire.

«Professor Saylor, le spiace chiamare Tansy al telefono?» La voce della signora Carr era molto affabile.

Norman ripeté ciò che aveva detto alla signora Sawtelle.

«Sono felice che sia andata in campagna a riposare» disse la signora Carr. «Dovevo dirle professor Saylor, che Tansy non mi sembra tanto in forma ultimamente e mi preoccupa un po’. È sicuro che stia bene?»