«Va bene, me le avrebbe suonate» disse Norman. Cercava con lo sguardo quel pezzetto di carta.
«Nessuno può dirmi che indirizzo ha dato all’autista del taxi?» chiese in giro.
Una o due delle persone presenti scossero la testa. Le altre fecero finta di non sentire. I loro sentimenti di ostilità non si erano raddolciti al punto di collaborare con lui. E molto probabilmente, nel trambusto, nessuno aveva udito quell’indirizzo.
In silenzio la piccola folla si diradò. La gente aspettò di essere fuori portata di voce prima di cominciare a discutere sull’accaduto. La maggior parte delle automobili se ne andò. I due soldati si sedettero sulle panchine davanti al deposito per aspettare il loro treno o il loro autobus.
Norman era solo, con Alec.
Trovò il ritaglio di carta di Tansy in una fessura fra due assi: era quasi passato dall’altra parte.
Lo portò vicino al taxi e si mise a studiarlo.
Udì Alec che diceva: «E ora, dove andiamo?» disse in tono dubitativo.
Consultò l’orologio. Le dieci e trentacinque. Mancava meno di un’ora e mezzo a mezzanotte. Poteva intraprendere tante cose per rintracciare Tansy, ma in quel momento non poteva tentarne più di un paio. I suoi pensieri procedevano con fatica, quasi con dolore, come se quella cosa che egli aveva visto dietro Tansy avesse ferito il suo cervello.
Gettò uno sguardo sui tristi edifici. I lati a mare di alcuni lampioni stradali mostravano ancora tracce di pittura nera, dei tempi di guerra in cui vigeva l’oscuramento delle coste. Una delle strade laterali era abbastanza animata. Guardò il pezzo di carta.
Pensò a Tansy. La pensò intensamente. Si trattava di sapere che cosa fosse più utile fare per lei, o che cosa il suo profondo affetto, la profonda solidarietà per lei, gli avrebbero dettato. Poteva rincorrerla su e giù sul lungomare, lungo le rotaie della ferrovia, ma chissà dove il suo taxi l’aveva mai portata… Poteva ritrovare l’antico pontile dove andavano da giovani a fare il bagno e tentare di aspettarla laggiù. O poteva aspettare che il taxi che lei aveva preso tornasse indietro. Poteva anche andare al commissariato di polizia, dire che sua moglie voleva suicidarsi, chiedere loro di aiutarlo nelle sue ricerche.
Ma gli venivano in mente altri pensieri. L’ammissione di Tansy di aver usato la magia. L’ultima manina protettiva che aveva bruciato, le improvvise telefonate di Jennings e della Van Nice, l’ostilità e le indesiderabili rivelazioni che lo avevano perseguitato in collegio. Ricordò il tentativo di omidicio di Jennings, la registrazione della raganella, la fotografia del drago, i pupazzi raffiguranti i personaggi dei tarocchi. Pensò alla morte di Totem, al fulmine dai sette rami, alle sue crisi di autolesionismo, ai suoi propositi suicidi. Pensò alle allucinazioni che aveva avuto da ubriaco, a quella cosa che lo aveva afferrato alle spalle e gli aveva tappato la bocca. Pensò all’allucinazione di pochi minuti prima quando aveva visto quell’ombra dietro Tansy.
E si decise.
«Dovrebbe esserci un albergo, nella via principale di Bayport» disse ad Alec. «Mi porti lì.»
14
“Eagle Hotel” era scritto in lettere d’oro orlate di nero sulla porta di vetro dietro la quale si vedeva interamente il piccolo atrio nudo e la sua mezza dozzina di poltrone vuote.
Norman disse ad Alec di attenderlo, e fissò una camera per la notte.
L’impiegato era un vecchietto dalla giacca blu, tutta lucida.
Norman vide sul registro che non vi erano stati ospiti di recente. Portò in camera la sua valigia e tornò immediatamente nell’atrio.
«Sono passati dieci anni da quando sono qui» disse all’impiegato. «Credo ci sia un cimitero un po’ più avanti, a monte della città, non è vero?»
Gli occhi assonnati del vecchio si spalancarono.
«Il cimitero di Bayport? Solo tre isolati su per questa strada, poi a sinistra, un isolato e mezzo… ma…» con la gola fece un rumore che pareva una domanda.
«Grazie» disse Norman.
Considerò un minuto il da farsi, poi pagò Alec, che intascò i soldi con espressione di sollievo e ripartì subito. Norman risalì la strada principale, volgendo le spalle alla baia.
Dopo il primo isolato terminava la fila dei negozi. In quella direzione Bayport si spegneva rapidamente, le case erano buie per la maggior parte, e quand’ebbe voltato a sinistra non c’erano più neanche i lampioni stradali.
Il cancello del cimitero era chiuso. Studiò il muro di cinta, davanti al quale si innalzava una siepe, cercando di fare meno rumore possibile, finché non trovò un alberello il cui ramo inferiore avrebbe sopportato il suo peso. Riuscì ad aggrapparsi al muretto, si arrampicò e con prudenza si lasciò cadere dall’altra parte.
Dietro il muro l’oscurità era densa. Udì un fruscio, come se avesse disturbato qualche piccolo animale. Più per istinto che con la vista reperì una pietra tombale, sottile, consumata, coperta di muschio alla base, e un po’ pendente da una parte. Risaliva probabilmente alla metà del secolo scorso. Scavò con le mani, e riempì di terra una busta che si tolse dalla tasca.
Tornò verso il muretto. Gli sembrò di fare molto rumore strisciando dietro la siepe. Ma la strada era vuota come prima.
Tornando verso l’albergo guardò in alto nel cielo, vide la stella polare e calcolò l’orientamento della sua stanza.
Mentre attraversava l’atrio, sentì lo sguardo dell’impiegato che lo scrutava con intensità.
La sua stanza era avvolta nell’oscurità. L’aria fredda pregna della salsedine entrava dalla finestra aperta. Chiuse a chiave la porta e la finestra, tirò le tendine e accese la luce: la luce abbagliante calava dal soffitto, svelava tutta l’austera sciattezza della stanza. L’unica nota moderna era un telefono.
Prese la busta che aveva in tasca, la soppesò nella mano, col labbro arricciato in un sorriso scettico. Rilesse il pezzo di carta che era sfuggito di mano a Tansy.
“…una piccola quantità di terra di cimitero, e avvolgi tutto in un pezzo di flanella arrotolandolo a controsole. Ordinagli di fermarmi. Digli di ricondurmi a te.”
Terra di cimitero. Come quella che aveva trovato nel tavolino di Tansy, nel suo spogliatoio. Era stato l’inizio di tutta questa avventura. E ora, anche lui se ne procurava.
Guardò l’orologio. Undici e venti.
Liberò il tavolino e lo portò al centro della stanza, tirò fuori il suo temperino e lo posò sull’orlo del tavolo, orientato a levante, come aveva fatto Tansy. Controsole significava da ovest a est. Sistemò gli ingredienti necessari sul tavolo, tagliò una striscia di flanella dall’orlo della sua vestaglia e unì insieme i quattro pezzi di carta scritti da Tansy. Il sorriso disgustato, ironico non abbandonava le sue labbra. Le quattro parti delle istruzioni, riunite, dicevano:
“Prendi quattro pezzi di corda bianca lunghi quattro pollici e un pezzo di budello di gatto, un pizzico di iridio o di platino, un pezzo di roccia magnetica, una puntina fonografica che sia servita solo a suonare la Nona Sonata di Scribian. Lega le quattro corde con un nodo a occhiello, un nodo a margherita, uno a bocca di lupo e un nodo piano. Col budello fa’ un nodo scorsoio. Aggiungi un pizzico di terra di cimitero e avvolgi il tutto in un pezzo di flanella, arrotolandolo a controsole. Ordinagli di fermarmi. Digli di ricondurmi a te.”
In complesso, la formula era più o meno simile a quella di centinaia di incantesimi praticati dai neri per i loro amuleti, e che lui aveva già veduto o di cui aveva sentito parlare. La puntina di grammofono, i nodi e un paio di altri ingredienti erano ovviamente invenzioni dei bianchi.
Tutto ricordava terribilmente un ragionamento infantile o l’atteggiamento di un adulto nevrotico che pone tutta la sua attenzione a calpestare o a evitare le crepe del marciapiede.