Fuori, un orologio suonò le undici e mezzo.
Norman si sedette e osservò l’involtino. Gli era difficile convincersi a cominciare. Sarebbe stato diverso se la cosa fosse stata fatta per gioco, o solamente per provare un brivido, o se lui fosse stato uno di quegli uomini il cui cervello è imbevuto di morbose tendenze al soprannaturale, che si divertono a giocare con la magia, perché fa tanto medioevo e perché i libri miniati sono così belli! Ma farlo con serietà d’intenti, arrendere la propria mente deliberatamente alla superstizione, questo voleva dire tentare di respingere con tutta la sua forza il mondo verso gli anni oscuri, cancellare dall’equazione il termine di scienza.
Però lui aveva visto quella cosa in piedi dietro Tansy. Certo, era stata un’allucinazione; ma quando le allucinazioni cominciano a comportarsi come le cose reali, sostenute da una serie di coincidenze convergenti, anche uno scienziato deve ammettere la possibilità di doverle trattare alla stessa stregua della realtà. E quando le allucinazioni cominciano a minacciare la vita di una persona, o dei suoi cari, in un modo fisico, diretto, allora… E soprattutto, quando si vuol dimostrare il proprio amore alla persona amata…
Afferrò il primo pezzo di spago e fece un nodo a occhiello.
Quando si trattò della bocca di lupo dovette guardare la pagina dell’enciclopedia. Dopo due tentativi falliti vi riuscì.
Ma per il nodo piano, non venne fuori nulla. Il nodo era semplice; ma, per quanto facesse, non somigliava mai alla figura dell’enciclopedia. Il sudore gli colava dalla fronte. “Fa caldo in questa stanza” pensò. “E dopo quella corsa, io sono zuppo di sudore”. La pelle, sulla punta delle dita, gli sembrava spessa un centimetro. Le estremità dello spago si misero a sfuggirgli. Ricordò come Tansy si districava con i nodi.
Undici e quarantuno. La puntina cominciò a rotolare sul piano del tavolo. Norman lasciò lo spago e posò la puntina vicino alla penna stilografica per impedirle di scivolare. Poi tornò al suo nodo. Per un attimo, credette di avere preso il budello invece dello spago, tant’era rigido e difficile da piegare. È incredibile ciò che può fare l’impazienza nervosa, pensò. Aveva la lingua secca. Deglutiva con difficoltà.
Finalmente, con gli occhi fissi sull’illustrazione, e imitandola punto per punto, riuscì ad annodare lo spago secondo il modello del nodo piano. In tutto il tempo di questa operazione, gli era parso vi fosse molto di più, fra le sue dita, di un semplice spago. Era come lottare contro una forza d’inerzia. Mentre terminava il nodo, provò un leggero brivido di freddo, simile all’inizio di uno stato febbrile, e la luce, sul suo capo, parve meno intensa. Sforzo visivo, probabilmente.
La puntina del grammofono rotolava nella direzione opposta, sempre più presto. Cercò di fermarla picchiandovi sopra con la mano, sbagliò il colpo, picchiò ancora e la fermò sull’orlo del tavolo. “Proprio come nel gioco del bicchiere indovino” disse tra sé. “Si cerca di mantenere il dito fermo sul bicchiere rovesciato, senza far pressione e rimanendo perfettamente immobili. Risultato: la tensione nervosa si accumula nei muscoli e raggiunge un punto di rottura. Il bicchiere comincia a muoversi, a scivolare, senza apparenza di volontà da parte dei giocatori, e guizza di lettera in lettera formando le parole”. Qui era lo stesso fenomeno. La tensione nervosa e muscolare gli impediva di annodare lo spago. Obbedendo a una tendenza universale, la rigidità del braccio si trasferiva allo spago, e con il gomito e il ginocchio aveva inconsciamente scrollato il tavolo.
Fra le sue dita la puntina parve vibrare, come se fosse la piccolissima parte di una grande macchina. Faceva pensare, un po’ alla lontana, all’elettroshock. Senza ragione, i torturanti e sonori accordi della Nona Sonata cominciarono a rintronare nella sua mente. Maledizione. Un sintomo ben noto di estrema nervosità, è quello del dolore lancinante nelle dita, dolore spesso molto intenso. Ma la sua gola era secca e il suo sbuffo di disprezzo rimase soffocato.
Infilò la puntina nella flanella per maggior sicurezza.
Undici e quarantasette. Afferrò il budello. Le sue dita tremavano ed erano così deboli che gli pareva di essersi arrampicato con il solo aiuto delle mani su una corda liscia di trenta metri. Il budello era in apparenza normale, eppure era scivoloso al tocco, come se l’avessero appena estratto dal ventre dell’animale e ritorto in fretta. Inoltre, per alcuni minuti era stato conscio di un odore acre, quasi metallico che aveva sostituito l’odore salso della Baia. “Allucinazioni olfattive e tattili oltre che visive e auditive” disse fra sé. Udiva sempre la Nona Sonata.
Sapeva fare un nodo «a gassa d’amante» rovesciato, e avrebbe dovuto essere facile, perché il budello non era rigido. Ma avvertì l’influenza di altre forze che lo manipolavano, o di altre menti che tentavano di dare ordini alle sue dita. Di modo che il budello cercava di annodarsi da solo in un nodo scorsoio, o in un nodo margherita, o in un doppio collo, qualsiasi nodo che non fosse un nodo gassa d’amante. Le dita gli dolevano, gli occhi erano stanchi per l’inconsueta fatica. Lavorava a controcorrente di una crescente inerzia, di una schiacciante inerzia. Ricordò che Tansy gli aveva detto, la notte della sua confessione, che vi era un effetto di reazione in ogni atto di magia come il contraccolpo di un fucile.
Undici e cinquantadue. Con grande sforzo Norman concentrò tutta la sua energia mentale e diresse la sua attenzione solamente sul nodo. Le sue dita anchilosate cominciarono a muoversi secondo uno strano ritmo, il ritmo della Nona Sonata, ma più vivo. Il nodo era fatto.
La luce diminuì notevolmente, immergendo tutta la stanza in un’oscurità fuligginosa. Cecità isterica, disse Norman fra sé. Le officine elettriche, nelle piccole città, erano sempre in equilibrio instabile. Faceva freddo, ora, così freddo che immaginò di vedere il vapore del suo fiato. Ed era tutto terribilmente silenzioso, di un silenzio totale, tant’è che Norman riusciva perfino a sentire e a udire il martellare del suo cuore il cui ritmo continuava ad aumentare con il fragore e il turbinio intollerabile della musica. In questo momento, un momento di diabolica, paralizzante lucidità, ebbe la certezza che quella era la stregoneria. Non semplice avvicinamento di strumenti ridicolmente medioevali, non un facile esercizio della mano, ma una lotta spossante, massacrante, per mantenere il controllo delle forze invocate di cui gli oggetti da lui riuniti erano solamente il simbolo. Fuori, però, oltre le pareti della stanza, oltre le pareti del suo cranio e oltre le impalpabili pareti dell’energia mentale, sentiva che quelle forze si univano, si gonfiavano nella spaventosa attesa di un suo errore, per potergli piombare addosso e schiacciarlo.
Non lo poteva credere. Non lo credeva. Eppure doveva crederlo.
L’unica incognita era questa: sarebbe stato capace di mantenere il controllo di quelle forze?
Undici e cinquantasette. Cominciò a riunire gli oggetti nel panno di flanella. La puntina balzò sulla pietra magnetica, tirandosi dietro la stoffa sulla quale era appuntata, e vi rimase appiccicata. Non avrebbe dovuto essere attratta perché era almeno a trenta centimetri di distanza dal sasso. Prese un pizzico di terra del cimitero. Fra il pollice e l’indice ogni singola particella pareva strisciare per proprio conto come un minuscolo verme. Sentiva che qualcosa mancava, non ricordava che cosa. Rilesse la formula. Una corrente d’aria fece volare le carte dal tavolo. Sentì delle forze esteriori che stavano premendo, si affrontavano, come se sapessero che Norman non vi sarebbe riuscito. Afferrò le carte, le mantenne ferme sul tavolo, chinandosi quasi a toccarle, e decifrò le parole platino e iridio. Batté la penna stilografica sul tavolo, ruppe il pennino e lo aggiunse agli altri oggetti.