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Si alzò e rimase vicino al tavolo, dalla parte opposta al temperino che segnava l’orientamento, e si appoggiò all’orlo del tavolo per tentare di calmare il tremito delle mani. Batteva i denti. La stanza era diventata tutta scura, tranne una irreale luce bluastra che filtrava dalle persiane, Non era possibile che le luci stradali avessero quella tinta di vapore di mercurio.

Improvvisamente la striscia di flanella cominciò ad arricciarsi come un nastro di gelatina riscaldata, ad arrotolarsi su se stessa, da est a ovest, nella stessa direzione del sole. Norman fece un balzo in avanti — le sue dita atrofizzate gli parevano di metallo — e arrotolò il panno in direzione opposta al sole, a controsole.

Il silenzio si fece ancora più cupo. Non sentiva più neanche il battito del suo cuore. Seppe che qualcosa stava in ascolto con una terribile intensità, in attesa che egli impartisse un comando e questo qualcosa attendeva con ansietà perfino maggiore, che fosse incapace di pronunciare quel comando.

Da qualche parte un orologio suonò le ore (ma era proprio un orologio, o il suono segreto del tempo?). Nove, dieci, undici, dodici.

La lingua gli si attaccò al palato, si sentì strozzare e tossì silenziosamente. Gli parve che le pareti della stanza fossero più vicine a lui, più strette di un momento fa.

Allora con una voce roca, riuscì a dire:

«Ferma Tansy, conducila qui».

Norman sentì la stanza tremare, il pavimento gonfiarsi, alzarsi sotto i piedi come se un terremoto avesse scosso il New Jersey. L’oscurità si fece assoluta. Il tavolo, o qualche forza erompente dal tavolo parve alzarsi e colpire Norman. Si sentì spinto e cadde all’indietro su qualcosa di soffice.

Poi le forze estranee scomparirono. La tensione in ogni cosa parve allentarsi. Tornò la luce, tornarono i suoni. Norman si ritrovò sdraiato sul letto, per traverso. Sul tavolo vi era un involtino di flanella che aveva perduto ogni importanza.

Provò la sensazione di essere stato drogato, o di svegliarsi dopo una notte di bagordi. Non aveva alcuna voglia di agire. Era svuotato di ogni energia.

Esternamente, nulla era mutato. Perfino la sua mente, con un meccanico raziocinio, poteva assumersi l’ingrato compito di spiegare il suo esperimento in termini scientifici, tessendo un’elaborata tela di cui la psicosi, l’allucinazione e le improbabili coincidenze formavano la trama.

Ma, dentro di lui, qualcosa era cambiato, irreversibilmente.

Un tempo infinito sembrò trascorrere.

Udì dei passi che salivano la scala, poi attraversavano il corridoio, e uno strano suono, il pluf-pluf di qualcuno che ha le scarpe piene d’acqua. Si fermarono davanti alla porta.

Egli attraversò la stanza, girò la chiave e aprì la porta.

Un filo grigio era impigliato nella sua spilla d’argento. L’abitino grigio pareva nero, inzuppato d’acqua com’era, tranne in un punto, più chiaro, che cominciava ad asciugare ed era leggermente spolverato di sale. L’odore della Baia era ovvio e vicino. Un altro filo d’alga le si era attaccato alla caviglia, sulle calze attorcigliate.

Intorno alle scarpe macchiate si formavano due piccole pozze d’acqua. Gli occhi di Norman seguirono le orme bagnate sino al corridoio. In cima alla scala c’era il vecchio portiere, un piede ancora fermo sull’ultimo gradino. Portava una valigia di cinghiale, tutta macchiata.

«Che cosa significa tutto questo?» gridò quando il suo sguardo incontrò quello di Norman. «Lei non mi aveva detto che aspettava sua moglie! Ha tutta l’aria di essersi gettata nella Baia. Non vogliamo che succeda nulla di indegno, in questo albergo. Nulla di male…»

«Va bene, va bene» disse Norman che prolungava l’attesa prima di dover guardare in faccia sua moglie. «Mi spiace, mi ero dimenticato di dirglielo. Mi vuol dare la valigia?»

«Già l’anno scorso abbiamo avuto un suicidio…» il vecchio impiegato non si rendeva conto di pensare ad alta voce. «… nuoce al buon nome dell’albergo.» Guardò Norman, tornò in sé e fece un passo incerto nel corridoio, poi si fermò, posò in terra la valigia e corse via per le scale.

A malavoglia Norman alzò gli occhi all’altezza di quelli di Tansy.

Il viso era pallido, molto pallido, senza espressione. Le labbra erano quasi azzurre, i capelli appiccicati alle guance. Una larga ciocca di capelli le ricopriva un occhio, come una benda, e scendeva verso il collo.

Un occhio spento guardava nella sua direzione, senza riconoscerlo. Non mosse una mano per togliersi i capelli dagli occhi.

L’orlo della gonna gocciolava.

Le labbra si socchiusero. La voce uniforme pareva il mormorio dell’acqua.

«Sei arrivato troppo tardi» disse quella voce «un minuto troppo tardi.»

15

Per la terza volta tornavano sulla stessa domanda. Norman aveva la sensazione agghiacciante di seguire un robot che gira costantemente nello stesso cerchio, calpestando gli stessi fili d’erba, mentre pone ogni volta i piedi nelle stesse orme.

Pur convinto che neanche questa volta avrebbe fatto un passo avanti, egli ripeté la domanda. «Ma come fai a non avere alcuna consapevolezza e allo stesso tempo sapere che non ce l’hai? Se la tua mente è vuota non puoi contemporaneamente essere conscia di questo vuoto.»

Le lancette dell’orologio segnavano quasi le tre del mattino. Il freddo e il disagio del punto più basso della notte avevano invaso la misera stanza dell’albergo. Tansy sedeva ritta, irrigidita sulla poltrona. Indossava la vestaglia di Norman e le sue pantofole foderate di pelo. Aveva una coperta sulle ginocchia e un asciugamano annodato a turbante sulla testa. Questo travestimento avrebbe dovuto darle un’apparenza infantile e forse anche ingenuamente attraente, invece no.

Sotto quell’asciugamano annodato sul capo non vi era nulla, come se il cranio fosse stato scoperchiato e il cervello rimosso. Una coppa vuota insomma. Era l’impressione che faceva a Norman ogni volta che commetteva l’errore di guardare Tansy negli occhi.

Le labbra pallide si schiusero. «Non so nulla. Parlo soltanto. Mi hanno portato via l’anima. Ma la voce è una funzione del mio corpo.»

Non si poteva nemmeno dire che il tono di voce fosse quello di chi spiega una cosa con pazienza. Era troppo neutra e uniforme. Le parole pronunciate chiaramente, e uniformemente staccate fra loro, parevano tutte uguali. Erano come il rumore di una macchina.

Non era intenzione di Norman soffocare di domande quella pietosa, rigida figura, ma sentiva di dovere, a ogni costo, risvegliare una scintilla di emozione in quella maschera impassibile. Doveva scoprire un punto intelligibile di partenza affinché la mente stessa di Norman potesse cominciare a lavorare efficacemente.

«Ma senti, Tansy, se tu puoi parlare di questa tua situazione vuoi dire che sei cosciente. Sei qui, con me, in questa stanza…»

Scosse meccanicamente la testa incappucciata; la stessa mossa di certe bambole.

«Qui con te non c’è nient’altro che un corpo. Io non è qui…»

Nella sua mente Norman aveva già fatto la correzione: io non sono… prima di rendersi conto che non era un errore di verbo. Trasalì.

«Vuoi dire» le chiese «che non vedi e non senti nulla? che tutto è oscurità, per te?»

Di nuovo la mossa meccanica del capo, che tradiva una convinzione più forte di qualsiasi infiammata protesta.

«Il mio corpo vede e sente perfettamente. Non ha subito alcuna offesa e funziona in ogni sua parte. Ma dentro non c’è nulla. Neppure l’oscurità.»