La mente di Norman, stanca ma sempre in agguato, balzò sulla teoria della psicologia del comportamento, e sulla sua asserzione fondamentale, cioè che le reazioni umane si possono spiegare tutte e in modo convincente, senza doversi neanche una volta riferire alla consapevolezza dell’individuo. Non occorre neanche assumere che la consapevolezza esista. Davanti a sé Norman aveva la prova perfetta di questa tesi. Forse non tanto perfetta, perché il comportamento di questo corpo mancava di tutti quei piccoli manierismi la cui somma costituisce la personalità umana. Il modo con cui Tansy strizzava gli occhi quando rifletteva su un problema difficile, quella piega a lui ben nota agli angoli della bocca quando si sentiva lusingata o divertita. Quelli erano spariti. Anche in quel modo di scuotere la testa tre volte, suo gesto tipico, quell’arricciare il naso alla maniera dei conigli, tutto era diventato ormai il NO di un robot.
Gli organi dei sensi rispondevano ancora allo stimolo esterno. Inviavano al cervello degli impulsi che lo attraversavano generando altri impulsi che agivano sui muscoli e sulle ghiandole, compreso gli organi motori della parola. Ma nient’altro. Neanche uno di quei fremiti intangibili che noi chiamiamo coscienza e che corrono per tutta la rete della corteccia cerebrale. Ciò che impartiva stile, lo stile di Tansy, a ogni movimento, a ogni espressione del suo corpo, era sparito. Rimaneva soltanto un organismo fisiologico, senza traccia o indicazione di personalità. Nemmeno un’anima di pazzo o di idiota (sicuro! perché non usare quel vecchio termine, ora che aveva un ovvio, specifico significato?) affiorava in quegli occhi verdi e grigi le cui palpebre battevano con la regolarità di una macchina, ma solo per inumidire la cornea.
Provò una sensazione di malinconico sollievo perché era riuscito a descrivere le condizioni di Tansy in termini ben definiti. Ma la descrizione stessa gli ricordava un articolo di cronaca nel quale si diceva che un vecchio si era tenuto per anni, in camera, la salma di una giovane donna che egli aveva amato e che era morta di un male incurabile. Era riuscito a preservare il corpo in uno stato di straordinaria freschezza per mezzo di cera o altri ingredienti e ogni sera le parlava, ed era persuaso che un giorno sarebbe tornata in vita, fino al momento in cui la cosa fu scoperta, e la salma debitamente seppellita.
Fece improvvisamente una smorfia. “Maledizione” disse fra sé. Perché lasciar vagare la sua mente intorno a queste fantasticherie, quando era evidente che Tansy soffriva di una inconsueta malattia nervosa, di strane auto-convinzioni?
Evidente?
Fantasticherie.
«Tansy» le chiese «quando la tua anima si è allontanata, come mai non sei morta?»
«Generalmente l’anima rimane a galla sino all’ultimo momento, senza potersi liberare, e svanisce, o muore, quando muore il corpo» rispose la voce; le parole erano pronunciate a intervalli regolari, come se seguissero il tempo di un metronomo. «Ma Colui-che-cammina-dietro mi strappava la mia. C’era il peso di un’acqua verde sul mio viso. Sapevo che era mezzanotte. Sapevo che tu non ce l’avevi fatta. In quel momento di disperazione Colui-che-cammina-dietro è stato in grado di portarmi via l’anima. Allo stesso momento, le braccia del tuo Agente si strinsero su di me, riportandomi alla superficie, verso l’aria. La mia anima, che era ancora vicina, seppe cos’era accaduto, ma era già troppo discosta per tornare in me. La doppia angoscia è l’ultima cosa che ha impresso sul mio cervello. Il tuo Agente e Colui-che-cammina-dietro conclusero che ognuno aveva ottenuto ciò che era stato mandato a prendere, e così fra loro non vi fu litigio.»
L’immagine che queste parole avevano suscitato nella mente di Norman era così atrocemente vivida che gli sembrò impossibile fossero state pronunciate da una semplice macchina fisiologica. Eppure solo una macchina fisiologica avrebbe potuto raccontare questa storia con una sobrietà d’espressione così totale.
«Dimmi se c’è qualcosa che ti possa toccare» le disse a voce forte, improvvisamente, il cuore stretto da un’intollerabile angoscia vedendo la vacuità del suo sguardo. «Non c’è nessuna cosa che tu desideri, che ti strugga?»
«Sì, una.» Questa volta il cenno meccanico del capo non significava dissenso ma assenso. Per la prima volta vi fu un cenno di vita in lei, un movente. La punta pallida della lingua leccò avidamente il labbro smunto. «Voglio la mia anima.»
Rimase senza fiato. Ora che aveva potuto risvegliare in lei un sentimento, ecco che questo sentimento egli lo odiava. Vi era in esso qualcosa di animalesco, simile al contorcimento di un verme sensibile alla luce che cerca avidamente il sole.
«Voglio la mia anima» ripeté la voce meccanicamente, e Norman si sentiva lacerare il cuore più di quanto lo avrebbe fatto un’implorazione o una supplica. «All’ultimo momento, sebbene non potesse tornare in me, la mia anima ha impresso quella aspirazione nel mio cervello. Sapeva che cosa le sarebbe toccato. Sapeva che vi sono molte cose che si possono fare a un’anima. Aveva tanta paura.»
Norman pronunciò a denti stretti «Dove credi che sia ora la tua anima?»
«L’ha presa lei, quella donna dagli occhietti spenti.»
La guardò. Qualcosa cominciò a martellare dentro di lui. Sentiva che l’ira lo stava invadendo e per il momento non gliene importava niente che si trattasse di pazzia furiosa o no.
«Evelyn Sawtelle?» le chiese con voce fioca.
«Sì, ma non è prudente parlare di lei chiamandola per nome.»
La mano di Norman balzò sul telefono. Doveva fare qualcosa di definito, se no perdeva il controllo di se stesso.
Riuscì, dopo alcuni minuti, a svegliare il portiere di notte e farsi dare il centralino locale.
«Sì, signore» disse la voce cantilenante. «Hempnell 1284. Vuole fare una chiamata personale a Evelyn Sawtelle? E-V-E-L-Y-N S-A-W-T-E-L-L-E? Riagganci. Prego. Può attendere? Ci vorrà molto tempo per la comunicazione.»
«Voglio la mia anima, voglio andare da quella donna. Voglio andare a Hemptell…» Ora che egli aveva provocato quel cieco desiderio nella creatura che gli stava di fronte, esso non si fermava più. Ricordava un grammofono fermo sullo stesso solco, o un giocattolo meccanico spinto con un buffetto su un nuovo circuito.
«Sì, cara, andremo a Hempnell.» Non riusciva ancora a controllare il suo respiro. «La riprenderemo.»
«Ma dobbiamo partire al più presto per Hempnell. I miei vestiti sono rovinati dall’acqua. Devo farli lavare e stirare dalla cameriera.»
Lentamente, con movimenti uniformi, si mise in piedi dirigendosi al telefono.
«Ma Tansy» obiettò lui «sono le tre del mattino. Non puoi far salire la cameriera ora.»
«I miei vestiti devono essere lavati e stirati. Devo andare a Hempnell subito.»
Le parole potevano sembrare quelle di una donna ostinata, sciocca ed egoista, ma il loro tono era più neutro di quello di una sonnambula.
Continuava ad andare verso il telefono. Sebbene egli non se l’aspettasse, si dovette scansare per lasciarla passare, schiacciandosi contro il letto.
«Ma anche se ci fosse una cameriera» le disse «non ti risponderebbe a quest’ora di notte.»
Il viso esangue si voltò verso di lui senza mostrare interesse.
«La cameriera è una donna. Verrà appena sentirà la mia voce.»
Chiamò il portiere di notte. «C’è una cameriera in questo albergo? La mandi in camera mia… Allora le telefoni… Non posso aspettare sino al mattino… ne ho bisogno subito. Grazie.»
Ci fu un lungo intervallo di attesa, poi Norman udì nel microfono il campanello dell’altro telefono. Immaginò la voce insonnolita che finalmente si accingeva a rispondere.
«È lei la cameriera? Venga subito, camera 37.» E indovinò pure la risposta indignata. Poi: «Non sente la mia voce? Non capisce in quali condizioni mi trovo?… Sì, venga immediatamente.» E ripose il telefono sul supporto.
«Tansy.» Cominciò lui… I suoi occhi si posavano su di lei, e si trovò ancora una volta a dover far domande, sebbene non ne avesse l’intenzione. «Sei in grado di udire le mie domande e di rispondere?»