«Io non le prenderò l’anima, sarebbe lei a fare un buon affare in questo caso. Ora può andare.»
«Oh, grazie, grazie!» La ragazza riprese a uno a uno gli abiti sparsi. «Glieli preparerò al più presto» E scappò via.
Solo al momento di muoversi, Norman si accorse che i suoi muscoli si erano intorpiditi per quei pochi minuti di osservazione clandestina. La figura impaludata negli asciugamani sedeva nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata qualche minuto prima, le mani giunte, gli occhi ancora fissi sul punto dov’era stata la cameriera.
«Se tu sapevi tutto questo» Norman le disse con semplicità, con la mente ancora agitata da ciò che aveva udito «perché hai abbandonato senza discussione le pratiche magiche quando te l’ho chiesto io la settimana scorsa?»
«Ogni donna ha due personalità.» Pareva una sibilla che pronunciava l’oracolo. «Una è razionale, come quella di un uomo. E l’altra… sa. Gli uomini sono creature artificialmente isolate, sono isole in un mare di magia, protetti dal loro raziocinio e dalle pratiche delle loro donne. Il loro isolamento infonde loro una maggiore energia di pensiero e di azione. Ma le donne hanno la conoscenza. Le donne potrebbero, apertamente, governare il mondo; ma del mondo non sanno che cosa farsene, né vogliono accettarne la responsabilità. Gli uomini possono imparare a superarle nell’arte della stregoneria. Anche oggi vi sono al mondo degli stregoni, ma pochi. La settimana scorsa ho intuito molte cose che non ho voluto dirti. Ma il mio lato razionale è ben ancorato nella mia personalità, e comunque volevo esserti vicina in tutto. Come molte altre donne io non ero sicura. E quando ho distrutto tutti gli amuleti e tutti i sortilegi, sono rimasta momentaneamente insensibile alla magia. Alla stessa stregua di chi è assuefatto a forti dosi di stupefacenti. Le piccole dosi non mi facevano nulla. Dominava in me il raziocinio. Per alcuni giorni ho goduto di una falsa sensazione di sicurezza. E durante il mio viaggio a Bayport ho appreso molto, in parte da ciò che Colui-che-cammina-dietro si è lasciato sfuggire.» Si fermò e aggiunse con un’infantile espressione di furbizia. «E adesso torniamo a Hempnell?»
Il telefono squillò. Era il portiere, tutto agitato, incoerente, che balbettava delle frasi incomprensibili in cui si capivano soltanto le parole “polizia” e “buttarvi fuori”. Per calmarlo Norman gli propose di scendere subito.
Il vecchio lo aspettava ai piedi della scala.
«Senta, signora» cominciò alzando un dito minaccioso. «Io voglio sapere cosa sta succedendo. Sissy è scesa ora dalla sua stanza, bianca come un panno lavato. Non mi ha voluto dir niente, ma tremava come una foglia. Sissy è mia nipote, le ho fatto avere io quel posto di cameriera, e sono responsabile di ciò che le può accadere. So cosa sono gli alberghi. Vi ho lavorato tutta la vita. E so che razza di gente ospitano. Talvolta le donne collaborano con gli uomini, e so che cosa tentano di fare alle ragazze. Io non ho niente contro di lei, signore ma è strana la maniera in cui sua moglie è arrivata qui. Quando mi ha detto di chiamare Sissy io ho pensato che stesse male, o qualcosa del genere. Ma se sta male perché non chiama un medico? E che cosa fanno loro due, svegli alle quattro del mattino? La signora Thompson, che ha la stanza accanto, mi ha chiamato per dire che in camera sua non si faceva altro che parlare, non ad alta voce, ma in maniera che a lei faceva paura. Ho il diritto di sapere che cosa sta succedendo.» Norman assunse il suo tono più distinto di professore e calmò a una a una le apprensioni del vecchio portiere, finché gli sembrarono inconsistenti. Tutto con molta dignità. Dopo un ultimo borbottio, il vecchio si lasciò convincere. Mentre Norman risaliva le scale, lui tornò ciabattando al suo centralino.
Arrivato al secondo piano, Norman udì lo squillo del telefono. Mentre percorrevano il corridoio lo squillo cessò. Norman aprì la porta. Tansy era in piedi vicino al letto, parlava al telefono. La macchia scura del telefono, che le attraversava il viso dall’orecchio alla bocca, intensificava il pallore delle guance e delle labbra, e il biancore degli asciugamani.
«Qui parla Tansy Saylor» diceva con una voce priva di modulazioni. «Voglio la mia anima.» Un silenzio «Non mi senti, Evelyn? Sono Tansy Saylor. Voglio la mia anima.»
Norman aveva completamente dimenticato la prenotazione telefonica, fatta in un attimo di disperata collera. Non sapeva più ora, cos’era che aveva pensato di dirle.
Un gemito prolungato uscì dal telefono. Tansy continuava lo stesso a parlare.
«Qui parla Tansy Saylor. Voglio la mia anima.»
Norman fece un passo avanti. Il gemito era diventato un urlo. Ma insieme a quello, si sentiva un intermittente ansare. Tentò di afferrare il telefono, ma in quel momento Tansy si voltò di colpo e qualcosa accadde allo stesso microfono.
Quando un oggetto inanimato si comporta come se avesse una vita propria, si pensa naturalmente alla possibilità di un’illusione ottica o altro. Vi è un modo, ad esempio, di maneggiare una matita che dà illusione di piegarla avanti e indietro come se fosse di gomma. E Tansy aveva la mano sul telefono, e l’agitava così rapidamente che diventava difficile essere certo di qualsiasi cosa. Comunque a Norman parve che il telefono diventasse improvvisamente pieghevole e si contorcesse come una serpe, penetrasse nella guancia di Tansy e nel collo, proprio sotto l’orecchio come una doppia zampa nera. Insieme all’urlo gli parve di udire un rumore attutito di risucchio…
La sua reazione fu immediata, involontaria e sbalorditiva. Cadde ginocchioni e strappò dal muro il cavo del telefono. Dal filo rotto uscivano scintille viola. L’estremità libera del cavo scattò all’indietro come una frusta, e parve ondulare un po’, poi si arrotolò intorno al braccio di Norman. Gli parve che per un attimo il cavo lo stringesse con forza, poi la stretta si allentò. Staccò il filo dal braccio con un terrore panico e si rimise in piedi.
Il telefono era caduto a terra. Aveva l’aspetto solito di un telefono. Gli diede un leggero calcio, udì un pluff e il telefono scivolò di pochi centimetri sul pavimento. Si chinò, esitò un attimo e lo toccò con riluttanza. Era duro e rigido come tutti i telefoni.
Guardò Tansy. Era in piedi nella stessa posizione di prima. Non c’era un atomo di paura nella sua espressione. Con l’indifferenza di una macchina aveva alzato una mano e si massaggiava lentamente la guancia e il collo. All’angolo del labbro apparivano alcune gocce di sangue.
Naturalmente poteva aver sbattuto il telefono sui denti ed essersi ferita il labbro.
Ma lui aveva visto…
Forse aveva scosso il telefono nella mano così rapidamente che gli era sembrato flessibile e piegato.
Ma non era un’apparenza… Ciò che aveva veduto era stato l’impossibile. Ma tante cose impossibili erano accadute.
Ed era stata proprio Evelyn Sawtelle all’altro capo del filo. Lui aveva sentito il rumore ampliato della raganella nel microfono. Nulla di sovrannaturale in questo. Se il disco della raganella fosse stato suonato a tutto volume nel telefono, lo si sarebbe sentito in quella maniera. Egli non si poteva ingannare su quel rumore. Era un fatto, e lui doveva attenersi ai fatti.
Gli forniva la scusa emotiva che gli occorreva. Ira. Egli era sbalordito dall’impeto d’odio che lo aveva pervaso al pensiero di quella donna dagli occhi spenti. Per un attimo si sentì nei panni dell’Iniquisitore davanti a una testimonianza irrefutabile di stregoneria. Visioni di tortura, la ruota, lo stivaletto, gli vennero in mente. Poi le reminiscenze medioevali svanirono e rimase l’ira che si andava trasformando in un deciso sentimento di odio.
Qualunque cosa fosse capitata a Tansy, sapeva che Evelyn Sawtelle, Hulda Gunnison e Flora Carr ne erano autrici. Aveva fin troppe certezze del loro agire. Quello era un fatto al quale doveva attenersi. Che avessero perseguitato la mente di Tansy per mezzo di una diabolica, subdola azione di suggestione o con l’aiuto di indefinibili, innominabili mezzi, non aveva importanza. Erano, tutt’e tre, responsabili del suo stato.