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«Rimane da fare una considerazione importante» riprese senza fermarsi. «La magia ci appare come una scienza decisamente subordinata all’ambiente, cioè alla posizione del mondo e delle condizioni generali del cosmo in un determinato momento, qualunque esso sia. Per esempio la geometria di Euclide è utile sulla terra; ma fuori, nell’immensità dello spazio, una geometria non euclidea si dimostra più pratica. Ed è così anche per la magia, e forse in maniera ancora più evidente. Sembra che nella magia le formule fondamentali non espresse cambino col passare del tempo e necessitino di continue riformulazioni. È lecito pensare che tali modifiche ubbidiscano a leggi non ancora scoperte. È anche stata fatta l’ipotesi che le leggi delle fisica ubbidiscono a un’analoga tendenza evolutiva. Ma ammettendo questa possibilità di evoluzione, essa è molto meno rapida nella fisica che nella magia. Ad esempio, si ritiene che la velocità della luce muti lentamente col passare dei secoli. È naturale che le leggi della magia si modifichino più rapidamente, poiché la magia dipende da un contatto fra il mondo materiale e un altro livello di esistenza. Questo contatto è complesso ed è soggetto a rapidi cambiamenti.

“Prendiamo ad esempio l’astrologia. Nel corso di molti secoli, la successione degli equinozi ha portato il sole in case celesti molto diverse, i segni dello zodiaco, per gli stessi periodi dell’anno. Si dice tuttora che una persona nata, poniamo, il 22 marzo, si trovi sotto il segno dell’Ariete, per quanto in realtà sia nata quando il sole era ancora nella costellazione dei pesci. Se si trascurano i cambiamenti avvenuti dal giorno in cui fu scoperta l’astrologia sino ad oggi, risulteranno inesatte e antiquate le formule per…”

«È mia convinzione» interruppe la voce, come un grammofono che si mette improvvisamente a suonare «che l’astrologia sia sempre stata inesatta. E una delle varie scienze occulte pure, e che viene usata alla stessa stregua della vetrina di un negozio, a scopo di richiamo… Ne sono convinta.»

«Penso che sia proprio così» disse Norman «e questo aiuta a capire perché la magia in sé è sempre stata discreditata come scienza, ed è questo appunto che io volevo dimostrare.

“Supponiamo che le formule fondamentali della fisica, come ad esempio le tre leggi del moto di Newton, siano mutate varie volte nel corso di queste ultime migliaia di anni. La scoperta delle altre leggi fisiche, in qualsiasi momento, sarebbe stata molto difficile. Gli stessi esperimenti, condotti in epoche diverse, darebbero risultati diversi. Questo accade invece con la magia e spiega perché essa venga periodicamente discreditata e ripugni a una mente razionale. Mi ricorda un po’ ciò che diceva il vecchio Carr a proposito della distribuzione delle carte al bridge. Rimescolando varie volte una moltitudine di fattori cosmici, le leggi della magia si modificano. Un occhio attento riesce a scoprire i mutamenti, ma sono necessari esperimenti continui, del tipo “sbaglia e impara”, al fine di mantenere l’efficacia delle formule magiche, soprattutto per il fatto che le formule fondamentali e le formule generali non sono mai state scoperte.

“Prendiamo un esempio concreto, la formula che io ho usato doménica notte. Comporta vari ingredienti che denunciano una recente revisione. Per esempio nella formula originale, non modificata, cosa si usava al posto di una puntina di grammofono?»

«Un fischietto in legno di salice, di determinata forma, nel quale si era fischiato una volta sola.»

«E il platino e l’iridio?»

«La formula originale diceva argento. Ma un metallo più pesante conviene di più. Il piombo, però, si era dimostrato inefficace. Lo avevo provato una volta. Forse era troppo dissimile dall’argento per altri versi.»

«Appunto. Tentativi empirici, sbagliare e riprendere da capo. Inoltre, in mancanza di esauriente indagine, non possiamo essere certi che tutti gli ingredienti di una formula magica siano indispensabili alla sua riuscita. Un paragone fra le formule usate in paesi diversi in epoche diverse sarebbe molto utile. Indicherebbe quali ingredienti sono comuni a tutte le formule, e quindi presumibilmente indispensabili e quali sono quelli non essenziali.»

Bussarono alla porta. Norman disse qualcosa, e la figura seduta accanto a lui abbassò il velo sul viso e si volse verso la finestra come se contemplasse i prati che sfilavano davanti. Solo allora egli aprì la porta.

Era l’ora di colazione, che gli era parsa tanto lunga a venire, come lo era stata la prima colazione. E l’inserviente era diverso ora. Un uomo color caffè anziché il nero d’ebano della prima volta. Evidentemente il cameriere di prima, che aveva mostrato evidenti segni di nervosità a ogni andirivieni, aveva deciso di lasciare che fosse un altro a prendersi la mancia finale.

Con impazienza mista a curiosità, Norman attese le reazioni del nuovo arrivato. Era in grado di indovinarle quasi tutte: prima un rapido sguardo alla persona seduta vicino a Norman (avrà pensato che lui e Tansy fossero i personaggi più misteriosi di tutto il treno). Poi un lungo sguardo di fianco mentre allestiva il tavolo pieghevole per la colazione, poi uno sguardo sorpreso, gli occhi che si spalancavano. Avvertiva quasi il brivido che percorreva quella pelle colore del caffè. E, dopo, solo sguardi involontari e una nervosità crescente, che si manifestava con una certa goffaggine, nel maneggiare le posate, i bicchieri. Poi un largo sorriso e una veloce uscita dallo scompartimento.

Una volta solamente Norman intervenne e fu per raddrizzare i coltelli e le forchette e piazzarli ad angolo retto nella loro usuale posizione.

Il pasto fu semplice, quasi frugale. Norman non guardava di fronte a sé mentre mangiava. Vi era qualcosa di più di una voracità animalesca in quel cibarsi metodico. Dopo il pasto tornò a sedersi comodamente e stava per accendere una sigaretta quando la figura accanto a lui disse:

«Non dimentichi nulla?» Le parole erano pronunciate senza alcuna modulazione.

Si alzò e mise tutti gli avanzi in una piccola scatola di cartone. Li coprì col tovagliolo di carta che aveva usato per ripulire tutti i piatti e mise la scatola nella valigia, accanto alla busta che conteneva i ritagli d’unghia che si era tagliato al mattino. La vista dei piatti scrupolosamente ripuliti dopo la prima colazione aveva contribuito a turbare il primo cameriere, ma Norman aveva deciso di aderire inflessibilmente a tutti i tabù espressi da Tansy.

E così aveva raccolto i resti del cibo, aveva badato a che nessun coltello né altro oggetto tagliente fosse rivolto contro di lui, o contro la sua compagna, e che dormendo avessero il capo rivolto verso la locomotiva, nella direzione stessa del loro viaggio, e aveva ubbidito ad altre regole minori. I pasti in privato permettevano di soddisfare un altro tabù, ma per questo c’era più di un motivo.

Diede un’occhiata all’orologio. Fra mezz’ora sarebbero arrivati a Hempnell. Non si rendeva conto di essere così vicino, C’era un leggerissimo senso di resistenza quasi fisica nell’avanzare verso quella regione, come se l’aria fosse diventata più densa. E la sua mente era alle prese con un gran numero di problemi non ancora vagliati.

Con le spalle voltate di proposito alla sua compagna, disse:

«Secondo il mito, le anime possono essere imprigionate in diversi modi: in scatole, nodi, animali, pietre… Hai qualche idea in proposito?»

Come aveva temuto, questa domanda gli portò la solita risposta. Le parole erano pronunciate con la stessa ostinazione monotona della prima volta in cui le aveva udite.

«Voglio la mia anima.»

Strinse la mani incrociate sul grembo. Per questo aveva finora evitato la domanda. Ma doveva cercare di saperne di più, se possibile.

«Ma dove, esattamente, la dobbiamo cercare?»

«Io voglio la mia anima.»