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«Sì…» Gli era difficile controllare la propria voce. «Ma dove, con precisione, può essere nascosta? Se lo sapessi sarebbe più facile.»

Dopo una lunga pausa, Tansy gli disse imitando come un robot i suoi modi professorali.

«L’habitat dell’anima è il cervello umano. Se è libero, cerca subito di integratisi. Si dice che anima e corpo siano creature separate, che convivono per simbiosi, una simbiosi così stretta, intima, che normalmente le fa apparire come un’unica cosa. Questo contatto sembra essersi fatto sempre più stretto col passare dei secoli. In effetti, quando muore il corpo ch’essa occupava, l’anima generalmente non riesce ad evadere e sembra morire con esso. Ma a causa di interventi sovrannaturali, l’anima talvolta si separa dal corpo che la ospita. E allora se non può ritornare nel proprio corpo, viene irresistibilmente attratta da un altro, sia che questo corpo possegga già un’anima o no. E così l’anima prigioniera è generalmente racchiusa nel cervello di chi l’ha catturata ed è obbligata a sentire, a seguire, nella più totale intimità, l’agire di quell’anima. In questo risiede forse il suo tormento peggiore.»

Il sudore colava a gocce sulla fronte di Norman.

La sua voce non tremò ma era anormalmente forte e sibilante quando chiese: «Com’è Evelyn Sawtelle?»

Nel dare la risposta, Tansy pareva leggesse il riassunto di una scheda informativa politica.

«È dominata da una bramosia di prestigio sociale. Impiega quasi tutto il tempo in falliti tentativi di snobismo. Nutre idee romantiche sul proprio conto, ma poiché queste idee sono troppo ambiziose per potersi realizzare, diventa moralista e puritana, e sfoggia severissime regole di condotta. È convinta di essere defraudata di qualcosa per via di quel marito che ha, e teme continuamente di vedergli perdere quel terreno che lei è riuscita faticosamente e fargli guadagnare. Quella sua personale mancanza di sicurezza le fa commettere azioni malefiche e inspiegabilmente crudeli. In questo momento è attanagliata dalla paura, ed è sempre in guardia. Per questa ragione aveva già pronti i suoi sortilegi quando ha ricevuto la telefonata.»

Norman chiese: «E la signora Gunnison, cosa pensi di lei?».

«È una donna di grande vigore e grandi appetiti. È una buona massaia e anche una buona padrona di casa: ma quelle attività non intaccano la sua energia. Avrebbe dovuto essere la padrona di una grande proprietà feudale. È un tiranno, congenitamente, e solo nella tirannia si sente a suo agio. Le sue bramosie, che per la maggior parte non possono essere apertamente soddisfatte nella nostra società contemporanea, trovano sfogo nondimeno per vie traverse. Le domestiche dei Gunnison hanno raccontato molte cose, ma solo di rado e con molta circospezione, perché lei è spie tata verso coloro che tradiscono la sua fiducia o minacciano la sua sicurezza.»

«E la signora Carr?»

«Di lei si può dir poco. È una donna convenzionale, governa suo marito con indulgenza, e le piace farsi passare per una soave, santa donna. Ma è avida di gioventù. Sono convinta che sia diventata strega nell’età matura, e quindi soffre di un profondo senso di frustrazione. Non sono sicura dei suoi moventi profondi. È strano, ma poco o niente della sua mente traspare oltre la superficie.»

Norman assentì. Poi facendosi forza disse in fretta: «Cosa sai della formula per riprendere un’anima rubata?»

«Poca cosa. Avevo molte di queste formule segnate nel diario che la signora Gunnison mi ha rubato. Avevo la vaga idea di escogitare un sortilegio di salvaguardia nel caso di un’eventuale aggressione in tal senso. Ma non le ricordo e dubito che ve ne sia una veramente efficace. Non le ho mai provate e, per mia esperienza, le formule non riescono mai al primo tentativo. Devono essere continuamente corrette dalla pratica.»

«Ma se fosse possibile paragonarle tra di loro, ricavando una formula fondamentale, una specie di denominatore comune, forse che…?»

Bussarono. Il portabagagli veniva a prendere le valigie.

«Arriviamo a Hempnell fra cinque minuti, signore. Le do una spazzolata qui in corridoio, signore?»

Norman gli diede la mancia e declinò l’offerta. Gli disse pure che si sarebbe portato le valigie da solo. Il portabagagli sorrise e se ne andò.

Norman si mise al finestrino. Per alcuni secondi vide solo la parete di pietra di una gola che gli correva davanti agli occhi con un sibilo, e alcuni alberi che svettavano sopra di essa. Ma poi la parete di sasso cedette il posto all’ampio panorama, e le rotaie cominciarono a scendere a zig-zag giù per la collina.

Vi erano più boschi che prati nella valle. Gli alberi parevano invadere la città, restringerla. Ma gli edifici del collegio vi spiccavano con fredda chiarezza. Avrebbe quasi potuto individuare la finestra del suo studio.

Quelle torri grigie, austere, quei tetti scuri davano l’impressione di un’intrusione da parte di un mondo molto diverso e molto più vecchio. Il suo cuore cominciò a martellare nel petto, come se già gli fosse apparsa in quel momento la fortezza del nemico.

17

Frenando un impulso a fare dietro-front, Norman voltò l’angolo di Morton, gonfiò il petto e si fece forza per guardare il collegio. Ciò che lo colpì maggiormente fu il suo aspetto di normalità. Ovviamente, non si aspettava una manifestazione tangibile di malignità, un segno esteriore di intima nevrosi, o di qualunque altro vizio contro il quale Norman stava combattendo. Ma questo anormale stato di buona salute, questa normalità da libro di testo (le piccole schiere di alunni che si dirigevano tutti insieme ai dormitori o ai bar non alcoolici dell’associazione studentesca, le file di ragazze in bianco che andavano alla lezione di tennis, l’aspetto cordiale, consueto dei larghi viali) colpiva Norman al centro stesso della sua mente, come se volesse deliberatamente convincere lui di essere pazzo.

“Non t’ingannare” dicevano i suoi pensieri “alcune di queste allegre ragazze sono già contaminate. Il tarlo c’è. Le loro rispettabili mammine hanno impresso nella loro mente qualche delicato suggerimento su come si fa a realizzare i propri desideri. Sanno già che la nevrosi è un male più complesso di quanto lo ammettano i libri di psichiatria e che i testi di economia non scalfiscono neppure la superficie della magia del denaro. E non sono certamente formule di chimica quelle che mandano a memoria quando i loro occhi assumono quell’espressione lontana, mentre sorseggiano la loro Coca-Cola o parlano dei loro corteggiatori”.

Entrò a Morton e salì rapidamente le scale.

Ma la sua capacità di meravigliarsi non era ancora esaurita, e fu in grado di capirlo, vedendo un gruppo di studenti uscire di classe in fondo al corridoio del terzo piano. Guardò l’orologio e capì che quella era la sua classe che se ne andava dopo averlo atteso dieci minuti, i dieci minuti di grazia concessi a un professore ritardatario. Era giusto, commentò. Lui era Norman Saylor, professore, vincolato ai suoi corsi, alle sue riunioni di comitato, ai suoi vari incarichi. Si nascose in fretta dietro l’angolo del corridoio per non farsi notare.

Dopo avere atteso pochi minuti davanti alla porta, entrò nel suo studio. Nulla pareva essere stato toccato, ma si mosse con prudenza e si guardò attentamente in giro per scoprire eventuali oggetti non del tutto consueti. Non aprì alcun cassetto prima di averlo ispezionato con cura.

Una sola lettera, fra quelle che si erano accumulate sul suo tavolo, era importante. Proveniva dall’ufficio di Pollard, e gli intimava di presentarsi a una riunione dei consiglieri, verso la fine della settimana. Sorrise con triste soddisfazione a questo indizio che la sua carriera stava rapidamente declinando.

Tolse alcuni documenti dai raccoglitori, ne riempì fino all’orlo la sua cartella e fece un pacco del resto.

Dopo aver lanciato un ultimo sguardo intorno a sé, durante il quale notò che il drago di Estrey non era stato rimesso al suo posto, qualunque esso fosse, sul tetto del collegio, cominciò a scendere le scale.