«Ti prego, Tansy… è necessario che ne parliamo.»
Ancora nessuna risposta. Norman alzò scoraggiato la mano.
«Ma sono sicuro che non c’è niente di male, se vuoi dirmi… Tansy, ti prego…»
Lei non mutò atteggiamento, ma arricciò le braccia, facendo fischiare le sue parole: «Perché non mi prendi a frustate, non mi pungi le braccia con degli spilli… È così che si faceva un tempo, non è vero?»
«Tesoro, piuttosto che farti del male io sopporterei qualsiasi cosa. Ma questo è un argomento di cui dobbiamo assolutamente parlare.»
«Non posso. Se dici ancora una parola mi metto a strillare.»
«Cara, se lo potessi mi fermerei subito ma qui si tratta… Dobbiamo proprio parlare e spiegarci.»
«Preferirei morire.»
«Ma tu devi dirmi il perché… Devi proprio!»
Aveva alzato la voce.
Per un attimo credette che Tansy fosse svenuta. Mosse una mano per trattenerla, ma era solo perché il suo corpo si era improvvisamente rilassato. Tansy andò vicino alla sedia, lasciò cadere il cappellino sul tavolo e svogliatamente si mise a sedere.
«E va bene, parliamone.»
6.37 p.m. Gli ultimi raggi del sole tagliavano in due la libreria, sfioravano i denti rossi della maschera cinese, quella a sinistra. Tansy sedeva a un’estremità del divano, Norman all’altra, voltato verso di lei, col ginocchio sul cuscino, intento ad osservarla.
Tansy si voltò bruscamente, scuotendo il capo irritata, come se nell’aria il fumo delle parole fosse diventato denso oltre il sopportabile.
«Benissimo, e allora facciamo come vuoi tu. Io ho seriamente tentato di usare la magia nera. Ho fatto tutto ciò che una donna civile non dovrebbe mai fare. Ho cercato di gettare incantesimi sulle persone e sulle cose, ho tentato di cambiare il futuro, io ho… insomma tutta la filastrocca!»
Norman annuì con un leggero sussulto. Nello stesso modo si comportava in classe quando qualche ragazzo non troppo brillante pareva avesse afferrato finalmente, dopo ore di spiegazioni, l’oggetto stesso della discussione. Si chinò verso di lei.
«Ma perché lo hai fatto?»
«Per proteggerti, tu e la tua carriera.»
Aveva abbassato gli occhi e guardava fissa le sue ginocchia.
«Ma, sapendo tutto ciò che sapevi sul sottofondo delle superstizioni, come facevi a credere che…» La sua voce non squillava più, era fredda come quella di un legale.
Lei si voltò bruscamente. «Non lo so. Se la metti così… naturalmente… Ma, quando si desidera disperatamente che le cose accadano o non accadano in un certo modo alla persona che si ama… Io facevo ciò che milioni di altre persone hanno fatto. E poi, vedi, Norman, le cose che facevo, ebbene… pareva che funzionassero, perlomeno nella maggior parte dei casi…»
«Ma non capisci» continuò dolcemente «che sono appunto le eccezioni a dimostrare che le cose che tu facevi… non funzionavano? Che la loro riuscita era solamente il frutto di coincidenze?»
La voce di lei si alzò leggermente di tono. «Di questo io non so niente. Ci possono essere state influenze contrarie che…» Si voltò con slancio verso di lui. «Non so più neanch’io a che cosa credo. Non sono mai stata veramente certa che i miei sortilegi funzionassero. Non c’era modo di saperlo. Ma non capisci? Una volta che avevo cominciato non osavo più fermarmi!»
«E così sei andata avanti per tutti questi anni?»
Annuì con un’espressione imbarazzata. «Sin da quando siamo venuti a Hempnell.»
La guardò, cercando di capire. Non era possibile ammettere di punto in bianco che nella mente di quella ordinata, moderna creatura che lui conosceva così intimamente, si trovasse una zona immensa ch’egli non sospettava neppure, affine alle pratiche ormai scomparse che lui analizzava nei libri, una zona che apparteneva all’età della pietra ma non a lui, una parte immersa nell’oscurità, piegata dalla paura, sospinta da venti immani. Cercò di immaginare Tansy che mormorava incantesimi, che cuciva manine di flanella alla luce di una candela, che visitava cimiteri, e Dio sa quali altri luoghi in cerca di ingredienti. La sua immaginazione rifiutava di andare oltre. Eppure tutto era accaduto sotto i suoi occhi.
L’unico atteggiamento un po’ sospetto nel comportamento di Tansy, che egli riusciva a ricordare, era la sua mania di fare “una passeggiatina da sola”. Se mai gli fosse accaduto di chiedersi quale rapporto ci fosse tra Tansy e le superstizioni, non avrebbe fatto altro che rilevare con compiacimento che, pur essendo donna, Tansy era quasi immune da irrazionalità.
«Oh, Norman mi sento così confusa e infelice» interruppe lei. «Non so più che cosa dire e come cominciare.»
Norman aveva pronta la risposta, una tipica risposta da professore.
«Dimmi cos’è successo, cominciando dal principio.»
7.54 p.m. Erano sempre seduti sul divano. La stanza era quasi buia. Le maschere demoniache cinesi parevano ovali irregolari di tenebra. Norman non poteva scorgere l’espressione di Tansy, ma a giudicare dalla voce, il suo viso doveva essersi animato un poco.
«Aspetta un momento» la interruppe. «Mettiamo in chiaro certe cose. Tu dici che arrivando a Hampnell avevi paura di non adattarti al mio lavoro. Questo accadeva prima di fare quel viaggio nel Sud, con la borsa di studio Hazelton?»
«Oh, sì! Hempnell mi spaventava. Tutti erano così ostili e così tremendamente rispettabili. Io capivo di essere un disastro come moglie di professore. Me lo sono sentito dire in faccia. Non so chi fosse la peggiore delle due: Hulda Gunnison, che mi squadrava dall’alto in basso dicendomi: “Ma sì, penso che ce la farai”, quando commisi la sciocchezza di confidarmi con lei; oppure la vecchia signora Carr, che mi batteva sulla spalla dicendomi: “Sono sicura che tu e tuo marito sarete molto felici a Hempnell. Siete giovani, ma Hempnell ama la gente giovane”. Di fronte a quelle due donne io mi sentivo in pericolo, come la tua carriera.»
«Bene. E così, quando ti portai con me negli Stati del Sud, in mezzo alla zona più superstiziosa di tutta l’America, tu, esposta a quell’ambiente notte e giorno, eri matura per assimilare la sua allettante, magica sicurezza.»
Tansy rise senza convinzione. «Sul fatto della mia maturità non saprei che dire. Ma l’ambiente mi impressionò fortemente. Assorbii tutto quanto potei. Forse in fondo alla mia mente c’era questo strano ammonimento: un giorno potresti averne bisogno. Quando tornammo a Hempnell mi sentivo più sicura di me stessa.»
Norman assentì. Il ragionamento quadrava. A pensarci ora, c’era stato qualcosa di anormale nell’intenso, silenzioso entusiasmo con il quale Tansy si era immersa nel noioso lavoro di segretaria, subito dopo il loro matrimonio.
«Ma non hai mai tentato di fare dei sortilegi sul serio» continuò Norman «fino a quel giorno in cui mi ammalai di polmonite, quel primo inverno, non è vero?»
«Esatto. Fino a quel momento la magia nera era come una nube di pensieri vagamente rassicuranti, parole che mi sorprendevo a pronunziare svegliandomi nel bel mezzo della notte, gesti che evitavo intenzionalmente di fare perché portavano male, come per esempio scopare le scale all’imbrunire, incrociare coltelli e forchette. E poi, quando prendesti la polmonite… Che vuoi, quando una persona che si ama è vicina a morire, si tenta qualsiasi cosa.»
Per un attimo la voce di Norman assunse un tono comprensivo. «Naturalmente.» Poi tornò all’inflessione professorale. «Ma suppongo che solamente dopo quel mio dibattito con Pollard sull’argomento dell’educazione sessuale, dal quale uscii con onore, e specialmente dal momento in cui fu pubblicato il mio libro, nel 1931, e vi furono tante critiche favorevoli, tu cominciasti a credere che le tue pratiche magiche funzionassero davvero.»
«Esatto.»
Norman si appoggiò allo schienale. «Santo Iddio!» disse.