«È tutta colpa mia» ripeteva Sawtelle, dolente, tirandosi la cravatta. Norman ricordò che Sawtelle si sentiva colpevole ogni volta che qualcosa colpiva o soltanto sconvolgeva Evelyn. «Mi sarei dovuto svegliare. Dovevo andare io al telefono. Quando penso a quella fragile creatura, che scendeva a tastoni per la scala senza sapere di aver davanti a sé… Ah!… E il mio nuovo incarico! Ti dico io che mi sento impazzire. La povera Evelyn è in uno stato così pietoso, da quando è successo, che tu non lo crederesti neanche vedendola.» E tirò il nodo della cravatta così nervosamente che si strozzò quasi e dovette allentarlo subito.
«Se ti dico che non ha chiuso occhio!» continuò, quando gli tornò il fiato. «Se la signora Gunnison non fosse stata così gentile da stare un paio d’ore con Evelyn, ieri mattina, non so cos’avrei fatto. Anche lei presente, Evelyn aveva ancora tanta paura che non mi lasciava fare un passo. Dio mio! Evelyn!!!»
Norman non poté identificare l’urlo inumano, e dubitò che Sawtelle lo potesse, tranne che quell’urlo proveniva dal primo piano della casa. Gridando: «Lo sapevo io di avere udito dei passi… È tornato!» Sawtelle corse come un fulmine fuori dallo studio. Norman lo seguì, ma con ben diversa paura addosso, paura che gli fu confermata da un rapido sguardo fuori dalla finestra: la sua macchina era vuota.
Sorpassò Sawtelle per le scale e fu il primo a raggiungere la porta della camera da letto. Si fermò di botto e Sawtelle gli cadde quasi addosso.
Non era successo nulla di ciò che Norman temeva. Avviluppata e ben stretta nella trapunta rosa, Evelyn Sawtelle si era spinta in fondo al letto, contro la parete: i denti le battevano, il suo viso era di un pallore gessoso.
In piedi, vicina al letto c’era Tansy. Per un attimo Norman si senti invadere da una grande speranza. Poi vide lo sguardo di sua moglie e la sua speranza svanì in un doloroso baleno. Aveva alzato il velo. Con quel trucco pesante, guance scarlatte, labbra colore di vermiglio, pareva una statua indecentemente dipinta, grottesca sino all’inverosimile, sullo sfondo rosa delle tende di seta. Ma una statua famelica.
Sawtelle spinse da parte Norman gridando: «Cos’è successo? Cos’è successo?» Vide Tansy. «Non sapevo lei fosse quì. Quando è entrata?» Poi: «È lei che l’ha spaventata?»
La statua parlò e il suo tono tranquillo lo zittì.
«Oh, no, non l’ho spaventata io. Non è vero, Evelyn?»
Evelyn Sawtelle guardava Tansy con gli occhi sbarrati per il terrore, e la sua mascella continuava a tremare. Ma quando parlò fu solo per dire: «No, Tansy non mi ha… spaventata… stavamo chiacchierando e… poi mi è parso di sentire… un rumore…»
«Solo un rumore, cara?» disse Sawtelle.
«Sì, come un rumore di passi, molto attutiti, nel corridoio…»
Non riusciva a staccare gli occhi da Tansy che fece un cenno di assenso quand’ebbe terminato.
Norman accompagnò Sawtelle nella sua futile quanto melodrammatica perlustrazione del primo piano. Quando tornarono, Evelyn era sola.
«Tansy è tornata in macchina» disse a Norman con voce flebile «Sono sicura che quei passi li devo avere immaginati.»
Ma i suoi occhi erano sempre pieni di paura quando Norman la lasciò, e non parve conscia della presenza di suo marito sebbene questi si desse da fare a stendere la trapunta e a sprimacciare i guanciali.
Tansy era seduta in macchina, guardando fisso davanti a sé. Norman vide che il suo corpo era sempre dominato da quella sua unica emozione. Doveva pur farle una domanda.
«No, non ha la mia anima» fu la risposta. «L’ho interrogata a lungo. Per esserne assolutamente certa ho fatto la prova definitiva: l’ho abbracciata. Ed è in quel momento che ha urlato. Ha molta paura dei morti.»
«Cosa ti ha detto?»
«Mi ha detto che qualcuno è venuto a portarle via la mia anima. Qualcuno che non si fidava di lei, qualcuno che desiderava la mia anima, per tenerla in ostaggio e anche per altri motivi, la signora Gunnison.»
Le dita di Norman aggrappate al volante sbiancarono. Pensava a quello strano sguardo implorante che aveva visto balenare prima negli occhi della signora Gunnison.
18
Entrando nello studio del professor Carr, si aveva l’impressione di trovarsi davanti a un tentativo di ridurre il mondo materiale e sensibile alla purezza virginale della geometria. Le anguste pareti erano ornate di tre stampe incorniciate che rappresentavano le sezioni coniche. In cima alla libreria, piena di libri di matematica rilegati in pelle con titoli in oro, vi erano due modelli di superfici curve, fatte di argentone e filo metallico. L’ombrello con le pieghe non schiacciate, in un angolo, avrebbe potuto simulare un modello geometrico e la superficie della piccola scrivania che separava Norman dal professor Carr era anch’essa nuda, tranne alcuni fogli di carta coperti di simboli. Le dita pallide, sottili di Carr riposavano su uno di questi fogli.
«Sì» gli disse «queste sono equazioni possibili di logica simbolica.»
Norman ne era quasi sicuro, ma fu felice di sentirselo confermare da un matematico. L’affrettato riferimento che Norman aveva fatto al Principia Matematica non aveva pienamente soddisfatto il professor Carr.
«Le maiuscole rappresentano le classi di entità, le minuscole sono i rapporti» disse Norman per aiutarlo.
«Ah, sì» Carr fregò il mento scuro sotto la barbetta a punta. «Ma di che tipo di entità e di rapporti si tratta?»
«Lei può risolvere l’equazione anche se ignora il significato dei simboli, non è vero?» ribatté Norman.
«Certamente. E i risultati delle operazioni saranno altrettanto validi sia che si tratti di mele, di incrociatori, di temi poetici o di segni dello zodiaco. Sempreché, naturalmente, i riferimenti originali fra entità e simboli siano stati assunti correttamente.»
«Ed ecco il mio problema» disse Norman rapidamente. Vi sono diciassette equazioni sul primo foglio. A prima vista sembrano molto diverse, fra loro. Ora mi chiedo se, da queste diciassette equazioni, non traspare una semplice, fondamentale equazione, mescolata a un mucchio di termini non essenziali. Ognuno degli altri fogli presenta un analogo problema.»
«Hm…» Il professor Carr cominciò a scarabocchiare con una matita, e il suo sguardo stava per tornare sul foglio, ma si trattenne.
«Devo confessare che sono molto curioso di sapere a quali entità si riferiscono questi problemi» aggiunse ingenuamente. «Non sapevo che fossero stati fatti dei tentativi di applicare la logica simbolica alla sociologia.»
Norman aveva previsto questa osservazione. «Sarò sincero, Linthicum» gli disse. «Mi è venuta una vaga idea di una certa teoria poco ortodossa e mi sono ripromesso di non parlarne finché non sarò sicuro che essa sia effettivamente valida.»
Il viso di Carr si illuminò di un largo sorriso di comprensione. «Posso capire i tuoi sentimenti» gli disse. «Ricordo ancora le tristi conseguenze di un mio affrettato annuncio, un tempo in cui avevo creduto di aver trovato la soluzione della trisezione dell’angolo. Naturalmente» aggiunse subito «ero ancora al ginnasio a quei tempi. Comunque ho fatto passare un brutto quarto d’ora al mio professore» disse con una sfumatura di soddisfazione.
Quando riprese a parlare gli era tornata la giovanile, timida curiosità. «Tuttavia… questi simboli mi stuzzicano molto. Così come sono potrebbero riferirsi… Be’, a qualsiasi cosa.»
«Mi spiace» disse Norman. «Lo so che le chiedo troppo…»
«Niente affatto, niente affatto.» Gingillandosi con la matita diede un’altra occhiata al foglio. Qualcosa lo colpì. «Ma, questo è molto intessante, non lo avevo notato prima» disse. E la sua matita cominciò a volare sulla carta, cancellando alcune cifre, formulando nuove equazioni. Il solco verticale fra le sue sopracciglia si fece più profondo. In un momento fu totalmente assorbito dal problema.