Con un senso di sollievo Norman si adagiò nella poltrona. Si sentiva esausto, gli occhi gli bruciavano. Quei cinque fogli rappresentavano venti ore di lavoro ininterrotto: martedì notte, mercoledì mattina e parte di mercoledì pomeriggio. Anche in questa occasione non aveva potuto fare a meno dell’aiuto di Tansy alla quale dettava appunti. Si era accorto di poter contare sulla sua automatica, inconscia precisione di robot.
Seguiva ora, semi ipnotizzato, quelle dita agili, anche se vecchie, che riempivano un foglio nuovo di equazioni derivate. I loro rapidi ma ordinati movimenti rendevano più intensa la serena, monastica quiete del piccolo studio.
Una stranezza appresso l’altra, pensava Norman come in un sogno. Non soltanto doveva far finta di credere alla magia nera, per sopraffare tre vecchie superstiziose e psicopatiche che si erano impadronite della mente di sua moglie, ma doveva anche rivolgersi alla scienza moderna della logica simbolica per servire quella pretesa fede. La logica simbolica usata per districare le contraddizioni e l’ambiguità delle formule magiche… Cos’avrebbe detto il vecchio Carr se avesse saputo a quali “entità” si riferivano i simboli?
Soltanto perché aveva invocato il prestigio dell’alta matematica, Norman era stato in grado di convincere Tansy che lui poteva escogitare una magia abbastanza forte da sconfiggere quella usata dalle sue nemiche. Mossa d’altronde conforme alle migliori tradizioni della stregoneria, a pensarci bene. Gli stregoni cercano sempre di incorporare le ultime scoperte nei loro sistemi, per guadagnare prestigio. Che cos’era in fondo la stregoneria se non una lotta per il prestigio nell’ambito del misticismo, e che cos’era uno stregone se non un individuo che si era illecitamente innalzato al di sopra dei suoi simili?
Che immagine grottesca era quella (ogni cosa cominciava a diventare istericamente ridicola nella sua mente stanca): una donna che credeva parzialmente alla magia, spinta sull’orlo della pazzia da tre donne che probabilmente vi credevano in pieno, o forse non ci credevano affatto, e i loro piani venivano ostacolati da un marito che non credeva a nulla ma che faceva finta di credere fino in fondo, ed era deciso ad agire in ogni cosa conformemente a questa credenza.
Oppure, pensò Norman (il suo sogno ad occhi aperti tendeva a farlo scivolare nel sonno, e la delicata, matematica semplicità dell’ambiente spingeva la sua mente verso visioni di spazio assoluto nel quale contemplava, davanti a sé, l’infinito) perché non abbandonare questo ragionamento artificiale ed ammettere che Tansy possedeva una cosa chiamata anima, e che questa cosa le era stata rubata dalla strega magra Evelyn Sawtelle, indi rubata ad Evelyn dalla strega grassa, Hulda Gunnison, e che in quello stesso momento egli cercava con quale magia avrebbe potuto…
Si scosse il sonno di dosso e tornò nel mondo raziocinante.
Carr aveva spinto davanti a sé un foglio di carta e aveva subito cominciato a lavorare su un altro dei cinque fogli che Norman gli aveva dato.
«Lei ha già trovato la prima equazione fondamentale?» gli chiese Norman incredulo.
Carr parve seccato per l’interruzione. «Certo, naturalmente.» La sua matita correva di nuovo, poi si fermò e guardò Norman. «Sì, è l’ultima equazione, quella più breve, in basso. A dire il vero non ero certo di trovarne una quando ho cominciato, ma le tue entità e i tuoi rapporti sembrano possedere un significato, qualunque esso sia.» E tornò con la matita al suo lavoro.
Norman rabbrividì e guardò allibito l’equazione risultante, chiedendosi quale fosse il suo significato. Per poterlo dire doveva consultare i riferimenti del suo codice e certamente non voleva esibire quel codice in quel luogo.
«Mi spiace darle tutto quel lavoro» disse malinconicamente. Carr riuscì a guardarlo un attimo. «Niente affatto, mi diverte. In verità ho sempre avuto il pallino per questo tipo di problema.»
Le ombre del pomeriggio si allungavano. Norman accese la luce di mezzo e Carr lo ringraziò con un rapido cenno del capo. La matita volava. Tre altri fogli erano stati spinti verso Norman, e Carr terminava l’ultimo quando la porta si aprì.
«Linthicum» fece la voce, senza neppure una traccia di rimprovero. «Cosa fai? È mezz’ora che ti aspetto di sotto.»
«Mi spiace, cara» disse il vecchio, guardando prima l’orologio poi la moglie «ma ero così impegnato…»
Lei vide Norman. «Ah, non sapevo che tu avessi una visita. Cosa penserà di me il professor Saylor. Temo di avergli dato l’impressione che io ti tiranneggi.»
Accompagnò queste parole con un così strano sorriso, che Norman si trovò a dire, nello stesso attimo del professor Carr: «Ma niente affatto.»
«Il professor Saylor mi sembra stanco morto» disse lei guadando Norman ansiosamente. «Spero che tu non lo abbia affaticato, Linthicum.»
«Oh, no, cara. Sono io che ho fatto tutto il suo lavoro» disse il marito.
Flora fece il giro del tavolo e guardò oltre la spalla del marito.
«Che cos’è?» chiese con gentilezza.
«Non lo so» disse Carr. Si raddrizzò e strizzò l’occhio a Norman. Poi proseguì: «Credo che dietro questi simboli, il professor Saylor stia rivoluzionando la scienza della sociologia. Ma è un segreto assoluto. E in ogni caso non ho la minima idea del significato di questi simboli. Io gli faccio solo da cervello elettronico.»
Con un cenno educato, come per dire: «Mi permette?» La signora Carr prese uno dei fogli e lo studiò attraverso le sue spesse lenti. Ma apparentemente la vista di quella serie di simboli la sconcertò e ripose il foglio.
«La matematica non è il mio forte» spiegò. «Sono sempre stata mediocre in scienze.»
«Sciocchezze, Flora» disse Carr. «Quando andiamo insieme a fare acquisti tu sei sempre stata più svelta di me a calcolare mentalmente i prezzi. Eppure ce la metto tutta per batterti.»
«Questo non conta» disse la signora Carr deliziata.
«Un momento e ho finito» disse il marito tornando ai suoi calcoli.
La signora Carr si rivolse a Norman, di là dal tavolo, parlando sottovoce. «Professor Saylor, sia così gentile di fare a Tansy questa mia ambasciata. Vorrei invitarla per il bridge domani sera, cioè giovedì, con Hulda Gunnison e Evelyn Sawtelle. Linthicum ha una riunione.»
«Con piacere» disse Norman con entusiasmo «ma temo che non possa farcela». E spiegò la faccenda dell’intossicazione.
«Ma è terribile, proprio terribile!» osservò la signora Carr. «Non vuole che venga ad assisterla?»
«Grazie» mentì Norman «abbiamo fatto venire qualcuno.»
«Molto, molto saggio» disse la signora Carr e guardò attentamente Norman, come per scoprire in lui la fonte di tanta saggezza. Il suo sguardo fisso lo mise a disagio. Era nello stesso tempo ingenuo e predatorio. Non lo avrebbe sorpreso, uno sguardo simile, in una delle sue alunne, ma in quella vecchia signora…
Carr depose la penna. «Ecco» disse «ho finito.»
Ringraziandolo ancora Norman raccolse i suoi fogli.
«Non è affatto un disturbo» lo assicurò Carr «mi hai procurato un pomeriggio molto, molto interessante. Devo confessare che hai provocato la mia curiosità.»
«Linthicum va pazzo per qualsiasi gioco matematico, specialmente quando si presenta come un rebus» disse la signora Carr. «Lo sa che una volta ha perfino compilato tutta una serie di tabelle sulle corse dei cavalli?»
«Ah… sì, è vero. Ma era solo per dare un esempio concreto del calcolo delle probabilità» corresse Carr, pronto. Ma il suo sorriso era ugualmente indulgente.
Lei aveva messo la mano sulla spalla del marito, e questi la coprì con la sua. Fragili e vivaci, invecchiati ma ancora freschi, quei due offrivano l’esempio perfetto della coppia che invecchia bene.