Norman si scosse. «Temo proprio di averlo insultato la settimana scorsa. Abbiamo avuto una lunga discussione e io ho perso le staffe.»
Gunnison scosse la testa. «Ciò non basta a spiegare il suo atteggiamento. Gli insulti, lui è in grado di incassarli. Se ti si mette contro è solo perché lo ritiene necessario e opportuno (che parola odiosa!) ai fini dell’opinione pubblica. Tu sai come dirige il collegio. Ogni due o tre anni bisogna che getti qualcuno in pasto alle fiere.»
Norman ascoltava appena. Pensava al corpo di Tansy, così come l’aveva lasciato, con le braccia e le gambe legate, la mascella pendente, il respiro affannoso, il fiato atroce a causa del whisky che le aveva fatto ingoiare. Era una via tortuosa, quella che egli aveva intrapreso, ma per arrivare a una soluzione non ve n’erano altre. A un certo momento, la notte precedente, si era quasi deciso a chiamare un medico e forse a farla ricoverare. Ma se lo avesse fatto avrebbe perduto per sempre ogni possibilità di ricuperare la ragione di Tansy. Quale psichiatra avrebbe creduto al complotto malefico di cui Norman conosceva l’esistenza, diretto contro l’integrità mentale di sua moglie? Per ragioni analoghe non c’era alcun amico al quale rivolgersi per un aiuto. No, l’unica strada era quella di puntare diritto alla signora Gunnison. Ma non era piacevole l’ipotesi di essere inquadrato nei titoli dei giornali come ad esempio LA MOGLIE DI UN PROFESSORE VITTIMA DI TORTURE. LEGATA E CHIUSA IN UNA DISPENSA DAL MARITO.
«È veramente molto grave, Norman» ripeteva Gunnison. «Mia moglie ne è convinta, ed è molto in gamba in queste faccende, conosce la gente.»
Sua moglie. Ubbidientemente Norman annuì.
«Per nostra sfortuna i nodi vengono al pettine in questo momento.» continuò Gunnison «mentre tu hai un sacco di guai, malattie e altro.» Norman notò che Gunnison guardava con una certa curiosità i suoi cerotti all’angolo dell’occhio e sotto una narice. Ma non gli diede alcuna spiegazione.
Gunnison era irrequieto, si voltò poi si riadagiò nella poltrona.
«Norm» disse «ho la sensazione che qualcosa non vada. Normalmente tu sei in grado di superare facilmente contrarietà di questo genere. Sei uno dei pochi uomini in gamba che abbiamo qui; ma io ho l’impressione che ci sia qualcosa di storto in tutto l’insieme.»
Era un’ovvia offerta a confidarsi e Norman sapeva che era fatta in buona fede. Per una frazione di secondo considerò l’idea di dire a Gunnison una piccolissima parte della verità. Ma equivaleva a portare i suoi guai in tribunale, e poteva immaginare, con la sua visione acuta, quasi allucinata, frutto della sua estrema stanchezza, come si sarebbero svolte le cose.
Come si poteva pensare di portare Tansy al banco dei testimoni anche nella sua condizione precedente di pazzia non furiosa?
“Lei dice, signora Saylor, che la sua anima le è stata rubata dal corpo?” “Sì” “Lei è conscia dell’assenza della sua anima?” “No. Non sono conscia di nulla” “Non conscia? Non vorrà dire che lei è inconscia?” “Certo. Io non posso né sentire né vedere” “Lei vuol dire che non mi vede né mi sente?” “Esattamente” “E allora come mai…”
Colpetto di martello da parte del giudice: “Se queste risate non cessano immediatamente, faccio sgombrare l’aula.”
Oppure la signora Gunnison era chiamata a testimoniare e lui, Norman, scoppiava in un richiamo appassionato alla giuria: “Signori, guardate quegli occhi, guardateli bene, vi supplico. C’è l’anima di mia moglie dietro quegli occhi, convincetevi, ve ne prego.”
Udì invece Gunnison che gli chiedeva: «Che hai, Norm?»
L’autentica gentilezza della voce lo commosse e lo fece tornare in sé. Stanco e improvvisamente assonnato tentava di formulare una risposta.
In quel momento entrò la signora Gunnison.
«Buon giorno» disse «sono felice che siate finalmente riusciti a parlare, voi due.» Poi con espressione protettiva guardò Norman attentamente. «Scommetto che lei non dorme da almeno due notti» disse bruscamente. «E cosa si è fatto sul viso? È stato il suo gatto a saltarle addosso?»
Gunnison rise, come faceva sempre per i modi burberi di sua moglie. «Che donna! Adora i cani e odia i gatti. Ma ha ragione sulla questione del sonno, Norman.»
La vista di quella donna e il suono della sua voce risvegliarono Norman portandolo a uno stato di gelida lucidità. Hulda Gunnison aveva l’aspetto di qualcuno che dorme regolarmente dieci ore per notte. Un costoso vestito verde faceva risaltare il rosso dei suoi capelli e le conferiva una specie di bellezza vistosa. La sottoveste pendeva e il soprabito era abbottonato storto; ma ciò suscitava in Norman l’idea di una trascuratezza privilegiata. Tipica di un personaggio potente che si ritiene superiore ai normali dettami dell’eleganza. Per una volta non aveva con sé la sua enorme borsa. Il cuore di Norman sussultò.
Non si fidava a guardarla negli occhi. Fece per alzarsi.
«Non andartene, Norm» disse Gunnison. «C’è ancora qualcosa di cui dobbiamo parlare.»
«Ma sì, perché non rimane?» disse la signora Gunnison.
«Mi dispiace» rispose Norman. «Tornerò nel pomeriggio se lei ha tempo, o domattina al più tardi.»
«Benissimo, non mancare» disse Gunnison gravemente. «C’è la riunione dei consiglieri domani pomeriggio.»
La signora Gunnison si sedette nella poltrona che Norman aveva appena lasciato.
«Mi saluti Tansy» gli disse. «La vedrò domani dai Carr, cioè se si è rimessa.» Norman annuì, poi uscì rapidamente e chiuse la porta dietro di sé.
Mentre aveva ancora la mano sulla maniglia, vide la borsa verde della signora Gunnison sul tavolo. Era dalla parte della vetrina che conteneva le gocce di Rupert e altre stranezze. Il suo cuore sussultò di nuovo.
In quell’anticamera, che serviva da segreteria, vi era una studentessa impiegata. Norman la interpellò.
«Signorina Miller» le disse, «vorrebbe essere così gentile da andarmi a prendere le pagelle di questi studenti?» E pronunciò mezza dozzina di nomi.
«Le pagelle sono nell’archivio, professor Saylor» disse un po’ dubbiosa.
«Lo so, ma dica all’incaricato che la mando io. Il professor Gunnison ed io le vogliamo riesaminare.»
Diligentemente prese nota dei nomi.
Mentre la porta si richiudeva dietro la ragazza, egli aprì il primo cassetto della scrivania, dove sapeva che vi era la chiave della vetrina.
Alcuni minuti dopo uscì la signora Gunnison.
«Credevo che lei fosse uscito» esclamò in tono asciutto. Poi con i suoi soliti modi burberi: «Aspettava che io me ne andassi per parlare da solo a solo con Harold?»
Egli non rispose, ma le guardò con insistenza la punta del naso.
Lei prese subito la borsa. «Non è il caso di farne un segreto» disse «io ne so tanto quanto lei, dei suoi guai, e forse anche di più. Per essere franchi, le cose si mettono piuttosto male.» La sua voce assumeva l’arroganza del vincitore. Ma gli sorrise.
Lui continuava a guardarle il naso.
«Ed è inutile che lei faccia finta di non essere seccato» continuò, irritata del suo silenzio «perché so benissimo che lo è e che domani Pollard chiederà le sue dimissioni.» Poi aggiunse: «Ma che cosa sta guardando?»
«Nulla» rispose, ed evitò il suo sguardo. Sbuffò, incredula, e prese dalla borsetta lo specchietto, lo guardò un momento senza capire, poi ispezionò tutto il viso in dettaglio.
Sembrò a Norman che la seconda lancetta dell’orologio si fermasse in eterno.
Molto dolcemente, ma molto rapidamente, con voce del tutto casuale che non fece neanche voltare la signora Gunnison, le disse: «Io so che avete rubato l’anima di mia moglie, e so come avete fatto. È il mio ramo e so come si procede. Per esempio se siete in una stanza con qualcun altro di cui volete rubare l’anima e quella persona si guarda allo specchio, e lo specchio si rompe mentre l’immagine del viso vi è tuttora riflessa, allora…»