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Sulla Luna esistono due soli tipi di mezzi da trasporto per le grandi distanze: il treno celerissimo monorotaia che collega le principali installazioni con servizio comodo e veloce a orario fisso, il cui uso però è molto limitato e destinato a restare tale a causa del costo, e i potenti trattori a turbina chiamati “caterpillar” o, più brevemente, “cat”. Su terreno liscio fanno anche i cento all’ora, ma normalmente possono considerarsi fortunati se riescono ad arrivare a cinquanta. Grazie alla diminuita forza di gravità e ai cingoli, questi veicoli sono capaci di inerpicarsi su incredibili pendenze e, in casi particolari, avendo incorporati dei paranchi, possono anche salire su dirupi verticali. Sui tipi di maggiori dimensioni si può vivere comodamente per qualche settimana, e infatti tutte le esplorazioni lunari sono state compiute a bordo di veicoli di questo genere.

Jamieson era un guidatore più che provetto e conosceva le strade a menadito. Ciononostante, per tutta la prima ora, Wheeler si sentì i capelli ritti in cima alla testa, convinto che gli sarebbero rimasti così per sempre. Ci voleva inevitabilmente un po’ di tempo perché i novellini si rendessero conto che le pendenze di 90° sulla Luna si potevano superare benissimo, se prese nel giusto modo. Forse però la paura di Wheeler non era dovuta al fatto di essere un novizio, ma alla tecnica di Jamieson, così poco ortodossa che anche un passeggero più esperto si sarebbe allarmato.

Il perché poi Jamieson fosse un conducente così estroso era un paradosso che aveva provocato tra i suoi colleghi più d’una discussione. Di solito era cauto e prudente e non agiva se prima non era sicuro delle conseguenze. Certi lo giudicavano pigro, ma sbagliavano. Era capace di passare settimane a lavorare su alcune osservazioni finché non era più che sicuro dei risultati, e allora li metteva da parte per due o tre mesi, per riprenderli in esame più tardi.

Eppure, quando era alla guida di un cat, quell’astronomo tranquillo e pacifico diventava un conducente temerario, detentore di tutti i records ufficiosi sulle piste da trattori dell’emisfero settentrionale. La causa era talmente recondita che lo stesso Jamieson non se ne rendeva conto: andava ricercata in un suo desiderio infantile di diventare spaziale, desiderio che il suo cuore difettoso aveva frustrato.

Dallo spazio, o anche osservandole da un telescopio terrestre, quando la luce del Sole le fa spiccare con maggior risalto, le pareti del Platone sembrano una barriera formidabile. Ma in realtà non arrivano ai mille metri d’altezza, e a saper scegliere la strada giusta fra i numerosi valichi, il tragitto dal cratere al Mare Imbrium non presenta soverchie difficoltà. Jamieson superò le montagne in meno di un’ora, anche se Wheeler avrebbe preferito che impiegasse un po’ più di tempo.

Si fermarono in cima a una scarpata che dominava la pianura. Dritta davanti a loro, stagliata contro l’orizzonte, si ergeva la guglia piramidale di Pico. Verso destra, digradanti a nordest, erano i più scoscesi picchi dei Monti Teneriffe, di cui solo pochi erano stati scalati per il semplice motivo che nessuno si era preso il disturbo di tentare l’impresa. La vivida luce della Terra, conferiva ai monti una fantastica tinta verdazzurra che contrastava molto col loro abituale aspetto nel corso del giorno lunare quando il sole abbagliante li colorava spietatamente di bianco e nero.

Mentre Jamieson si riposava gustando lo spettacolo, Wheeler si mise a studiare accanitamente il paesaggio con un potente binocolo. Dopo dieci minuti smise, visto che non aveva scoperto niente d’insolito. Ma non era deluso, in quanto la zona dove prendevano terra i razzi non preannunciati era molto al di sotto dell’orizzonte.

— Andiamo avanti — disse. — Potremo raggiungere Pico in un paio d’ore. Ci fermeremo là a mangiare.

— E poi? — fece Jamieson in tono rassegnato.

— Se non riusciremo a vedere niente, ce ne torneremo indietro come bravi bambini.

— Okay… Però d’ora in avanti non sarà un viaggio molto piacevole. Non credo che più d’una dozzina di trattori abbiano mai fatto questo percorso. Per tirarti su il morale aggiungerò che uno di essi è il nostro Ferdinando.

Fece avanzare il veicolo evitando abilmente un ampio declivio formato da frantumi di roccia accumulatasi nei millenni. Quelle collinette erano estremamente pericolose, perché bastava un nonnulla a mettere in moto irresistibili valanghe che travolgevano ogni cosa sul loro percorso. Malgrado la sua apparente noncuranza, Jamieson non amava correre rischi e stava sempre alla larga da simili trappole. Un conducente meno esperto avrebbe allegramente galoppato lungo la base della collina, senza pensarci su due volte… e in novantanove casi su cento ce l’avrebbe fatta. Ma Jamieson aveva visto che cosa accadeva nel centesimo caso. Quando l’ondata di polvere e di pietrisco avvolgeva un trattore, non c’era via di scampo, poiché tutti i tentativi per trarlo in salvo sarebbero unicamente serviti a provocare nuove slavine.

Wheeler cominciò a sentirsi nettamente a disagio quando iniziarono la discesa dei contrafforti esterni del Platone. Era strano, dal momento che erano meno scoscesi delle pareti interne, però non aveva tenuto conto del fatto che Jamieson avrebbe approfittato delle migliorate condizioni per accelerare, col risultato che Ferdinando procedeva con uno strano moto sussultorio.

Wheeler si ritirò nella parte posteriore del yeicolo, e per un po’ non lo si vide. Quando tornò accanto a lui, disse seccamente: — Nessuno mi aveva mai avvisato che si può soffrire di mal di mare sulla Luna!

Jamieson proseguì per quasi due ore, fin quando, alla fine, la triplice torre di Pico non dominò l’orizzonte antistante.

I viaggiatori si fermarono in quel punto per mangiare qualcosa e farsi un caffè. Uno dei piccoli disagi della vita sulla Luna è costituito dal fatto che non si possono bere bevande veramente calde, in quanto l’acqua bolle a circa 70° nell’atmosfera ricca di ossigeno e a bassa pressione. Dopo un poco, tuttavia, ci si abitua alle bevande tiepide.

Dopo che ebbero spazzato le briciole del pasto, Jamieson chiese al collega: — Sei sempre dell’idea di continuare?

— Sì, finché sarà possibile. Da qui, quelle pareti mi sembrano orribilmente ripide.

— Si potrà benissimo andare avanti, se farai quello che ti dirò. Volevo solo sapere come ti senti adesso. Non c’è niente di peggio che soffrire di nausea quando si indossa una tuta spaziale.

— Io sto benone — disse Wheeler con dignità.

Nel corso dei sei mesi passati sulla Luna, Wheeler aveva indossato la tuta spaziale non più di una dozzina di volte, e generalmente nel corso delle prove d’allarme. Le occasioni perché il personale dell’Osservatorio dovesse recarsi nel vuoto erano assai rare. Tuttavia Wheeler non si poteva dire proprio un novizio, anche se si trovava ancora in quello stadio improntato alla cautela, molto meno rischioso della sicurezza distratta.

Chiamarono la Base, via Terra, per riferire la loro posizione, poi si aiutarono a vicenda a indossare la tuta. Prima Jamieson, quindi Wheeler, ripeterono la cantilena: — A linee aeree, B batterie, C controlli, D antenna direzionale… — che pare così sciocca e puerile la prima volta che la si ascolta, ma che diventa tanto presto parte integrale della vita lunare e sulla quale nessuno si permette di scherzare. Quando furono sicuri che l’equipaggiamento era in condizioni perfette, aprirono le porte stagne e uscirono sulla pianura polverosa.

Come quasi tutte le montagne della Luna, anche Pico non era poi formidabile come pareva da lontano. C’erano alcune rocce verticali, ma si poteva evitarle e al massimo si dovevano superare asperità di quarantacinque gradi. Con la gravità ridotta a un sesto di quella terrestre, non era impresa ardua, anche indossando la tuta spaziale.