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La fattoria dell’Osservatorio lo aveva sorpreso e affascinato. Era davvero curioso che in quell’epoca di meraviglie scientifiche, di prodotti sintetici e artificiali, ci fossero ancora alcune cose che solo la natura sapeva fare. La fattoria costituiva una parte integrante del sistema di condizionamento dell’aria ed era nel suo massimo fulgore durante la lunga giornata lunare. Quando Sadler la visitò, file di lampade fluorescenti sostituivano la luce solare, e saracinesche metalliche chiudevano i finestroni. Sarebbe stato così fino a quando il Sole non fosse tornato a spuntare sulla parete occidentale di Platone.

Sadler aveva avuto l’impressione di trovarsi in una perfetta serra terrestre. Lente correnti d’aria passavano tra le file delle piante in crescita, cedendo loro anidride carbonica e arricchendosi non solo d’ossigeno, ma anche di quell’indefinibile freschezza che nessun chimico era ancora riuscito a copiare.

Il reparto Segnalazioni contrastava con la fattoria in maniera superiore a ogni immaginazione. Ci si trovavano i circuiti che collegavano l’Osservatorio alla Terra, al resto della Luna e, all’occorrenza, agli altri pianeti. Era questo il punto nevralgico di maggior importanza e vulnerabilità. Ogni messaggio in arrivo e in partenza veniva sottoposto a censura, e gli addetti alle macchine erano passati più volte attraverso il controllo del Dipartimento di Sicurezza. Due impiegati erano stati trasferiti, senza che se ne sapesse il motivo, a incarichi meno delicati. Inoltre (e questo non lo sapeva nemmeno Sadler) una camera telescopica lontana trenta chilometri fotografava ogni minuto i grandi apparecchi di trasmissione di cui l’Osservatorio si serviva per le comunicazioni a grande distanza. Se fosse capitato che uno di quei radiofari fosse rimasto puntato in direzione non prevista, sia pure per un solo minuto, lo si sarebbe venuto a sapere.

Il cuore dell’Osservatorio era, naturalmente, il telescopio da mille centimetri, il più grande strumento ottico che l’uomo avesse mai creato. Si drizzava sulla sommità di una piccola altura, a poca distanza dalla zona residenziale, imponente nella sua mole.

— Non assomiglia per niente ai telescopi terrestri — spiegò Molton, una volta che si trovavano insieme nella più vicina cupola d’osservazione. — Il tubo, per esempio… è fatto in modo da permetterci di lavorare anche di giorno. Senza di esso la luce solare si rifletterebbe dalla struttura portante allo specchio, e questo comprometterebbe le nostre osservazioni; inoltre, il calore altererebbe lo specchio. Ci vorrebbero poi ore e ore per rimetterlo in sesto. I grandi riflettori terrestri non hanno di queste preoccupazioni in quanto vengono usati solo di notte…

— Credevo che sulla Terra non ci fossero più osservatori attivi — commentò Sadler.

— Ce ne sono pochissimi, infatti, e quasi tutti servono per i corsi di addestramento. La vera ricerca astronomica è impossibile, in quell’atmosfera così densa. Prendete il mio lavoro, per esempio: la spettroscopia ultravioletta. L’atmosfera terrestre è completamente impenetrabile alle lunghezze d’onda che c’interessano. Infatti nessuno le aveva mai osservate prima che riuscissero a conquistare lo spazio. Mi chiedo spesso come l’astronomia sia mai potuta sorgere, sulla Terra.

— Il supporto mi pare molto singolare — osservò Sadler pensoso. — Si direbbe più adatto a un cannone che a un telescopio.

— Dite bene. Ma il fatto è che non si sono presi la briga di mettere un supporto equatoriale. C’è un calcolatore automatico che bada a fargli seguire qualunque stella si voglia osservare. Ma andiamo disotto a vedere quello che succede all’altra estremità dell’apparecchio.

Il laboratorio di Molton era pieno di apparecchi strani; alcuni incompleti, la maggior parte dei quali completamente sconosciuti a Sadler. Quando espresse a voce alta questa impressione, la sua guida parve molto divertita.

— Non dovete vergognarvi, se vi sembrano tutti strani, perché in massima parte li abbiamo progettati e costruiti qui. Stiamo continuamente cercando di migliorare i nostri strumenti. Ma, per dirla in parole povere, ecco come funzionano. La luce riflessa dal grande specchio — noi ora ci troviamo esattamente sotto il tubo di esso — è incanalata lungo il tubo che avete visto là fuori. Non posso dimostrarvelo ora perché non è il mio turno e c’è qualcun altro intento a prendere fotografie. Ma quando tocca a me, scelgo la parte del cielo che m’interessa, premendo un pulsante su quel quadro comandi, e ci fisso su lo strumento. A questo punto mi resta solo da analizzare la luce con questi spettroscopi. Mi spiace che non possiate vedere molto del loro funzionamento, perché quasi tutte le componenti sono coperte da una custodia. Infatti, quando entrano in funzione bisogna fare il vuoto assoluto nella sezione ottica, perché, come vi ho detto poco fa, basta pochissima aria per bloccare i raggi dell’estremo ultravioletto.

Un’idea bizzarra colpì Sadler.

— Ditemi — fece, posando lo sguardo su quel groviglio di fili, sulle batterie dei calcolatori elettronici, sulle mappe di linee spettrali — ma voi non avete mai guardato in quel telescopio?

— Mai — rispose Molton sorridendo. — Si potrebbe farlo benissimo ma non è di alcuna utilità. I telescopi grossissimi altro non sono che enormi macchine da presa. Che interesse c’è a guardare in una macchina da presa?

Però, all’Osservatòrio, c’erano anche strumenti in cui si poteva guardare senza tante difficoltà. Alcuni dei più piccoli erano muniti di telecamera e si ricorreva a essi quando era necessario cercare comete o asteroidi di cui non si conosceva con esattezza la posizione. Sadler riuscì ad avere a disposizione un paio di volte vino di quegli strumenti e guardò a casaccio nel cielo, per vedere quello che poteva scoprire. Calcolava una posizione qualsiasi sul quadro dei comandi, poi guardava nello schermo per vedere che cosa era riuscito a catturare. Dopo qualche tempo imparò anche l’uso dell’Almanacco Astronautico, e fu un gran giorno quello in cui riuscì a calcolare le coordinate di Marte e se lo vide comparire subito in mezzo al campo visivo.

Fissò allora con un tumulto di sentimenti il disco verde e ocra che riempiva quasi tutto lo schermo. Una delle calotte polari stava lentamente ritirandosi — si era al principio della primavera e le grandi tundre coperte di gelo si risvegliavano lentamente dopo il crudelissimo inverno. Era un pianeta stupendo, visto così da lontano, ma difficile da colonizzare. Niente da meravigliarsi se i suoi figli cominciavano a perdere la pazienza con la Terra.

L’immagine del pianeta era incredibilmente chiara e nitida. Non c’era il minimo tremolio, né incertezza, e Sadler, che aveva visto Marte una volta attraverso un telescopio terrestre, poteva ora constatare con i suoi occhi di quali pesanti catene si fosse liberata l’astronomia non avendo più da lottare con l’atmosfera. Gli osservatori avevano studiato Marte sulla Terra per decine e decine d’anni, con strumenti più grandi di quello, eppure lui riusciva a vedere più in poche ore di quanto essi fossero riusciti a osservare in tutta la vita.

Dopo aver guardato Marte a sazietà, cercò Saturno. La singolare bellezza dello spettacolo che si presentò ai suoi occhi lo lasciò ammutolito. Gli pareva impossibile che fosse prodotto dalla natura invece che dall’arte umana. L’enorme globo giallo lievemente schiacciato ai poli, fluttuava al centro del suo complicato sistema d’anelli. E di là dal groviglio concentrico degli anelli, Sadler riuscì a contare almeno sette delle lune del pianeta.

Dopo un poco parve a Sadler che l’infinito splendore dei cieli lo avesse drogato. Ora ci voleva qualcosa che lo riportasse fra gli uomini, e perciò volse il telescopio verso la Terra.

Era talmente enorme che lo schermo ne poteva contenere soltanto una parte. La fetta illuminata era sottile, ma anche la parte in ombra del disco era ricca d’interesse. Laggiù, nella notte, innumerevoli luci fosforescenti indicavano la posizione delle città, e laggiù c’era Jeanette che dormiva e forse sognava di lui. Sapeva che aveva ricevuto la sua lettera: la risposta di lei, perplessa ma prudente, l’aveva rassicurato, anche se il tacito rimprovero in essa contenuto, e il senso della solitudine, gli avevano lacerato il cuore. Che avesse, in fin dei conti, commesso uno sbaglio? Talvolta rimpiangeva amaramente la prudenza convenzionale che aveva regolato il loro primo anno di matrimonio. Come quasi tutte le coppie di quel pianeta sovrappopolato che ruotava ora davanti ai suoi occhi, avevano atteso di vedere se andavano d’accordo prima di imbarcarsi nell’avventura di avere figli. Poi a Sadler era stato affidato quell’incarico, e così aveva avuto modo di constatare per la prima volta come fosse grave la situazione interplanetaria. E allora aveva deciso che Jonathan Peter non sarebbe nato finché l’avvenire era così incerto. Ma era troppo tardi per i rimpianti: tutto quello che lui amava era laggiù, su quel globo addormentato, diviso da lui dall’abisso dello spazio. I suoi pensieri avevano descritto un circolo vizioso. Aveva percorso il tragitto dalle stelle all’uomo, attraverso l’immenso deserto del cosmo fino all’oasi solitaria dell’anima umana.