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L’astronave “Pegaso” con trecento passeggeri e sessanta uomini di equipaggio si trovava solo a quattro giorni dalla Terra quando la guerra cominciò e finì. A bordo si visse qualche ora d’allarme e di confusione via via che venivano intercettate le trasmissioni fra la Terra e la Federazione. Il capitano Halstead era stato costretto a prendere misure energiche nei confronti di sei o sette passeggeri che pretendevano di tornare indietro invece di andare su Marte dove forse li aspettava l’incerto avvenire dei prigionieri di guerra. In fondo, non si poteva dar loro tutti i torti: la Terra, bellissima falce argentea, era ancora molto vicina, e molto lontano invece era il punto d’arrivo.
La “Pegaso” però aveva raggiunto la sua velocità orbitale lanciandosi come un enorme proiettile sul percorso che l’avrebbe inevitabilmente fatta arrivare su Marte, guidata dalla gravità solare che prevale su tutto. Era impossibile tornare indietro: una manovra del genere avrebbe richiesto una quantità enorme di energia propulsiva, mentre la “Pegaso” portava nei serbatoi polvere sufficiente ad accordare la propria velocità con quella di Marte alla fine dell’orbita e a permettere qualche eventuale piccola correzione di rotta lungo il tragitto. Che lo volesse o no, la “Pegaso” era diretta verso Marte con l’inevitabilità di un treno che corre sui binari.
Le parole “Mayday”, “Mayday” uscirono gracchiando dall’altoparlante e annullarono tutte le altre preoccupazioni che affliggevano l’equipaggio della “Pegaso”. Da trecento anni, nell’aria, in mare e nello spazio quelle parole erano servite a chiedere aiuto, avevano fatto dirottare navi per correre ad aiutare compagni in pericolo. Ma il comandante di un’astronave aveva ben poco da fare: nella storia dell’astronautica si contavano solo tre casi di soccorsi nello spazio che avevano avuto buon esito.
Due sono le ragioni che rendono tanto difficili le operazioni di soccorso nello spazio: e di queste, solo la prima è fatta oggetto di grande pubblicità da parte delle compagnie di navigazione. I disastri di grandi proporzioni, nello spazio, sono rarissimi; quasi tutti gli incidenti hanno luogo nel corso del decollo o dell’atterraggio. Una volta che l’apparecchio ha raggiunto lo spazio e si è inserito nell’orbita che lo porterà senza sforzo alcuno a destinazione, è completamente al sicuro dai pericoli esterni e può temere solo qualche guasto meccanico nella propria struttura. Simili guasti avvengono più spesso di quanto i passeggeri non sappiano, ma sono di lieve entità e subito riparati dall’equipaggio. Tutte le astronavi, per legge, sono formate da diversi compartimenti indipendenti tra loro e dei quali ciascuno può servire come ricovero in caso d’emergenza. Per questo, il peggio che possa accadere è che si passi qualche ora in condizioni alquanto scomode, mentre un comandante furibondo impreca contro il suo ufficiale tecnico.
La seconda è che le astronavi procedono a velocità enormi su rotte calcolate con esattezza e che non permettono deviazioni apprezzabili, come stavano cominciando a imparare i passeggeri della “Pegaso”. L’orbita che un’astronave segue per recarsi da un pianeta all’altro è unica; nessun altro apparecchio la seguirà mai più. Nello spazio non ci sono “astrovie”, ed è un caso raro se due astronavi percorrono rotte che si avvicinano più di un milione di chilometri.
Tutto questo folgorò nella mente del capitano Halstead mentre gli riferivano il messaggio ricevuto. Lesse la posizione e la rotta dell’apparecchio avariato, e la cifra indicante la velocità gli parve alterata per causa di qualche disturbo nel corso della trasmissione, tanto era alta. Quasi sicuramente non avrebbe potuto fare nulla, erano troppo lontani!
Poi notò la firma. Gli parve che quel nome gli suonasse familiare, eppure non riusciva a ricordarlo. Lo fissò perplesso finché capì, finalmente, chi gli chiedeva aiuto…
Gli antagonismi spariscono quando ci sono vite in pericolo. Il capitano Halstead si chinò al quadro comandi e disse: — Comunicazioni! Datemi il commodoro Brennan.
— È in circuito, signore. Potete parlare.
Halstead si schiarì la voce. Quella era un’esperienza nuova, per lui, e non delle più piacevoli. Non gli dava nessuna soddisfazione dire, sia pure a un nemico, che non poteva far niente per soccorrerlo.
— Parla il capitano Halstead della “Pegaso” — disse. — Siete troppo lontani perché vi possa incontrare. La nostra riserva è di meno di dieci chilometri al secondo. Non occorre fare il calcolo… so già che è impossibile. Avete niente da proporre? Vi prego di confermare la vostra velocità. Ci hanno dato una cifra errata. La risposta, dopo un intervallo di quattro secondi, giunse inaspettata e sorprendente.
— Parla il commodoro Brennan dell’incrociatore federato “Acheronte”. Confermo la cifra relativa alla nostra velocità. Potremo venire in contatto con voi entro due ore, e provvederemo noi a tutte le modifiche di rotta necessarie. Disponiamo ancora di energia, ma dobbiamo assolutamente abbandonare la nave entro tre ore. Il nostro schermo di protezione contro le radiazioni non esiste più, e il reattore principale comincia a essere instabile. Abbiamo provveduto a un controllo, e potrà resistere un’ora ancora dopo che vi avremo raggiunto. Ma non possiamo garantire di più.
Il capitano Halstead si sentì correre un brivido gelido per la schiena. Non sapeva come potesse un reattore diventare instabile, in compenso sapeva che cosa accadeva al verificarsi di questa eventualità. Ma c’era una cosa che il commodoro Brennan doveva sapere.
— “Pegaso” ad “Acheronte” — rispose. — Abbiamo a bordo trecento passeggeri. Non posso mettere a repentaglio la mia nave, qualora ci sia il pericolo di un’esplosione.
— Questo pericolo non c’è, ve lo posso garantire. Avremo per lo meno cinque minuti di preavviso, il che ci permetterà, al caso, di allontanarci da voi senza danneggiarvi.
— Benissimo. Allora terrò pronti i miei compartimenti stagni, e l’equipaggio vi passerà un cavo.
Seguì una lunga pausa. Alla fine, Brennan rispose: — Il guaio è che siamo isolati nella sezione di prua. Non ci sono compartimenti stagni esterni, qui, e inoltre disponiamo di cinque tute spaziali, mentre siamo in centoventi.
Halstead fece un lungo fischio e si volse verso il suo ufficiale di rotta, prima di rispondere. — Non possiamo fare niente per loro — disse. — Devono spaccare lo scafo per uscire, e questo vorrà dire la fine per tutti loro, salvo per i cinque che hanno la tuta. Non possiamo prestare le nostre… non c’è alcun modo di prenderli a bordo senza far cadere la pressione. — Ciò detto riaprì il microfono. — “Pegaso” ad “Acheronte”. Cosa ci proponete di fare per assistervi?
Era fantastico parlare a un uomo che si poteva già dare per morto. Le tradizioni dello spazio sono rigide come quelle del mare. Cinque uomini avrebbero potuto lasciare l’“Acheronte”, ma il suo comandante non sarebbe stato fra loro.
Halstead non sapeva che il commodoro Brennan non si sognava neppure di aver perso la speranza, per disperata che potesse sembrare la situazione. Il suo ufficiale medico, dal quale era partita l’idea, stava già spiegando il progetto alla ciurma.
— Ecco quello che dovremo fare — disse il piccolo uomo bruno che fino a pochi mesi prima era stato uno dei primi chirurghi di Venere. — Non possiamo raggiungere i compartimenti stagni perché siamo circondati dal vuoto, e inoltre possediamo solo cinque tute. Questo apparecchio è stato costruito per il combattimento non per portare passeggeri, e temo che i suoi progettisti avessero altro per la testa che il Regolamento di Sicurezza Spaziale. Quindi non ci resta che fare buon viso a cattivo gioco. Fra un paio d’ore raggiungeremo la “Pegaso”. Per nostra fortuna, quell’astronave è fornita di ampi portelli per il carico delle merci e dei passeggeri: nei suoi compartimenti stagni, stringendoci un po’, potremo starci in trenta o quaranta… senza tuta, naturalmente. So bene che non è una prospettiva piacevole, ma è sempre meglio del suicidio. Dovrete respirare spazio, e senza tante storie. Non dico che sarà divertente, però è qualcosa che ricorderete per tutta la vita.