Il capitano Halstead osservava dal ponte di comando in attesa che la manovra cominciasse. Si vide un improvviso sbuffo di fumo uscire dallo scafo dell’“Acheronte”, poi il portello d’emergenza si spalancò e disparve a gran velocità nello spazio. Una nuvola di polvere e di vapore condensato esplose dall’apertura, impedendo la vista per un secondo. Il capitano sapeva quale effetto avrebbe fatto l’aria, fuggendo, sugli uomini in attesa, succhiando il loro corpo e cercando di strapparli agli appigli a cui stavano aggrappati.
Quando la nube si fu dispersa, i primi uomini erano già usciti. Il capofila indossava la tuta e tutti gli altri lo seguivano, divisi in tre file. Quelli della prima tennero dietro al loro compagno, i primi delle altre due furono prontamente afferrati dagli uomini della “Pegaso” e avviati ai rispettivi portelli.
Con sollievo Halstead si rese conto che gli uomini dell’“Acheronte” avevano l’aria di sapere quello che dovevano fare e si sforzavano di farlo il meglio possibile.
Sembrò che passassero ore prima che l’ultima figura dalla prima fila scomparisse nell’interno del compartimento.
Immediatamente attraverso l’altoparlante giunse l’avviso dell’uomo rimasto all’esterno: — Chiuso il numero Tre! — e subito dopo: — Chiuso il numero Uno! — Ma passarono lunghi momenti d’agonia prima che venisse data la segnalazione della chiusura del portello Due. Poi, finalmente, anche l’ultimo portello venne chiuso.
A bordo dell’“Acheronte”, il commodoro Brennan era in attesa insieme agli altri novanta uomini che si erano già disposti in gruppi di tre file ciascuno.
Andò perso un uomo nell’ultimo turno. Si era lasciato prendere dal panico, e dovettero chiudere il portello lasciandolo fuori per non mettere a repentaglio anche gli altri. Fu un vero peccato, ma per il momento tutti erano talmente soddisfatti di avercela fatta, che non se la presero troppo.
Restava ancora una cosa da fare. Il commodoro Brennan, ultimo rimasto a bordo dell’“Acheronte”, sistemò i circuiti a tempo che avrebbero fatto partire l’astronave dopo trenta secondi.
Così avrebbe avuto tempo sufficiente per mettersi in salvo. Girò l’interruttore e si diresse verso il portello. Aveva già raggiunto la “Pegaso” quando l’apparecchio di cui era stato il comandante prese vita per l’ultima volta e si diresse silenziosamente verso le stelle della Via Lattea.
Nei pianeti interni l’esplosione fu appena visibile. Le ambizioni della Federazione e le ultime paure della Terra si erano trasformate in polvere.
20
Tutte le sere, quando il Sole scende dietro la piramide solitaria di Pico, l’ombra della grande montagna arriva fino a inghiottire la colonna di metallo che continuerà a ergersi nel Mare delle Piogge finché questo durerà. Su questa colonna sono incisi cinquecentoventisette nomi in ordine alfabetico. Nessun segno distingue coloro che sono morti per la Federazione da coloro che sono morti per la Terra, e forse è questa la prova migliore che non sono morti invano.
La battaglia di Pico segnò la fine del predominio terrestre e l’inizio dell’era planetaria. La Terra era stanca, sfinita dagli sforzi compiuti per conquistare i mondi vicini, quei mondi che le si erano inesplicabilmente ribellati, così come tanto tempo prima le colonie americane si erano rivoltate contro la madrepatria.
La partita era fortunatamente finita alla pari, e ciascun antagonista aveva imparato una lezione, concisa e salutare: più d’ogni altra cosa ciascuno aveva imparato a rispettare l’altro. E ora erano tutti e due indaffarati a spiegare ai propri sudditi quello che avevano fatto in loro nome…
L’ultima esplosione della guerra fu seguita, a poche ore di distanza, da esplosioni politiche, sia sulla Terra sia su Marte e Venere. Quando il fumo fu disperso, molte ambiziose personalità erano scomparse, almeno per il momento, e coloro che erano rimasti al potere avevano un unico scopo da raggiungere: ristabilire relazioni amichevoli e cancellare il ricordo di un episodio che non tornava a onore di nessuno.
L’episodio della “Pegaso” intervenuto nel bel mezzo degli antagonismi bellici a ricordare agli uomini quanto fosse necessario che restassero solidali, facilitò molto il compito degli uomini di Stato. Il Trattato di Fobos fu firmato in un’atmosfera che uno storico chiamò “rossa di vergogna”. L’accordo venne raggiunto in fretta, poiché tanto la Terra che la Federazione possedevano qualcosa di cui l’altra aveva estrema necessità.
La scienza più progredita della Federazione aveva donato alla Terra il segreto della spinta senza accelerazione, come viene universalmente anche se imprecisamente chiamata. Da parte sua, la Terra adesso era pronta a dividere le ricchezze che aveva scovato nel seno della Luna dove c’erano ricchezze sufficienti per le necessità umane di molti secoli a venire.
L’effetto immediato fu che la Luna, fino a quel momento considerata come una parente povera dalla ricca e vecchia Terra, si trasformò nel più importante dei mondi. Dopo dieci anni, la Repubblica Lunare Indipendente avrebbe avuto rapporti di perfetta uguaglianza sia con la Terra che con la Federazione.
Ma a questo ci avrebbe pensato l’avvenire. Tutto quello che importava per il momento era che la guerra fosse finita.
21
Sadler pensò che Central City era molto ingrandita da quando l’aveva vista trent’anni prima. Ognuna delle cupole attuali avrebbe potuto contenere tutte le sette cupole di una volta. Andando di quel passo, quanto tempo ci sarebbe voluto per ricoprire tutta la Luna? Sadler sperava di non vivere tanto da vederlo.
La stazione era grande come una delle vecchie cupole, e al posto dei cinque binari che lui ricordava, ce n’erano adesso trenta. Ma il modello delle vetture non era cambiato di molto, e anche la velocità pareva la stessa. Il veicolo che l’aveva portato dallo spazioporto sarebbe potuto essere lo stesso con cui aveva attraversato il Mare delle Piogge più di un quarto di secolo prima.
Per le strade i veicoli erano molto più numerosi di una volta; ormai Central City era troppo grande perché si potessero sbrigare i propri affari girando a piedi. Ma una cosa era rimasta immutata: il cielo, lassù, in alto, era azzurro e picchiettato di nuvole come quello della Terra, e Sadler pensò che sicuramente la pioggia continuava a cadere secondo orari prestabiliti.
Balzò su una monoauto e compose l’indirizzo sul quadrante, poi si appoggiò comodamente allo schienale, mentre la vettura lo portava attraverso il traffico delle strade. Il bagaglio era già stato inviato all’albergo, e lui non aveva alcuna fretta di seguirlo. Appena in albergo, infatti, sarebbe stato subito preso nel giro degli affari e non avrebbe più avuto il tempo di occuparsi della faccenda che gli stava a cuore.
Il veicolo, procedendo veloce sui cavi-guide nascosti, s’infilò in una galleria che doveva servire a mettere in comunicazione due cupole. Poiché l’illusione del cielo era perfetta, non era facile capire quando si usciva da una cupola e si entrava in un’altra, ma Sadler lo capì quando la piccola vettura oltrepassò le grandi porte di metallo nella parte più bassa della galleria. Sapeva che quelle porte potevano chiudersi ermeticamente in meno di due secondi qualora ci fosse stata una diminuzione di pressione dall’una o dall’altra parte dei battenti. La preoccupazione che accadesse un simile incidente procurava notti insonni agli abitanti di Central City? Sadler ne dubitava: una gran parte dell’umanità aveva vissuto e viveva all’ombra di vulcani, dighe e argini senza per questo soffrire di tensione nervosa.
Il veicolo uscì nel quartiere residenziale, e agli occhi di Sadler si presentò una scena completamente diversa. Qui non c’era una cupola che racchiudeva una piccola città, ma un’unica, gigantesca costruzione, con corridoi mobili che fungevano da strade. La vettura si fermò, e una voce educata lo informò che, se voleva, con uno e cinquanta di extra l’avrebbe aspettato per mezz’ora. Ma Sadler, convinto che gli ci sarebbe voluto molto tempo solo per trovare il posto che cercava, declinò l’offerta, e la monoauto si allontanò alla ricerca di altri clienti.