Pochi metri più in là c’era un grande ufficio d’informazioni su cui troneggiava una mappa tridimensionale dell’edificio. Sadler, a cui pareva di trovarsi in un alveare, pensava che, con un po’ d’abitudine, doveva essere facile girare per l’edificio, ma per il momento la confusione di Piani, Corridoi, Zone e Settori gli faceva girare la testa.
— Cercate qualcosa, signore? — disse una voce squillante alle sue spalle.
Sadler si volse e vide un bambino di sei o sette anni che lo guardava con gli occhi sgranati. Aveva pressappoco la stessa età del suo nipotino Jonathan Peter II. Santo cielo, era proprio passato tanto tempo da quando era stato sulla Luna l’altra volta.
— Qui non si vede spesso gente della Terra — disse il ragazzino. — Vi siete perso?
— Non ancora — rispose Sadler. — Ma ci manca poco.
Poi tirò fuori il taccuino e lesse lentamente il complicato indirizzo.
— Venite — si limitò a dire il piccolo, autoproclamandosi guida, e Sadler fu ben lieto di seguirlo.
La rampa terminava bruscamente in una strada ampia dal fondo mobile. Questa li portò lentamente per qualche metro, poi li scaricò su un tratto che procedeva a Velocità più elevata. Dopo aver sorpassato velocemente gli ingressi di innumerevoli corridoi, furono di nuovo scaricati su un tronco più lento e condotti a un enorme crocevia esagonale, affollato di gente che arrivava, o si avviava sulle varie strade, o si fermava a fare acquisti nei piccoli chioschi. Nel bel mezzo di quel centro fitto di andirivieni, s’innalzavano due rampe a spirale, mobili, una per la salita e una per la discesa. Sadler e il bambino andarono davanti alla spirale “Salita” e si lasciarono trasportare per l’altezza di sei piani. Affacciandosi al parapetto della rampa, Sadler ebbe modo di vedere che l’edificio si estendeva verso il basso fino a distanza vertiginosa. Molto al di sotto, gli parve di scorgere qualcosa di simile a una grande rete. Fece rapidamente qualche calcolo e convenne che doveva essere sufficiente ad attutire la caduta di chiunque fosse stato così pazzo da volersi buttare giù. Gli architetti delle costruzioni lunari dimostravano di prendere la gravità con una leggerezza che sulla Terra sarebbe stata disastrosa.
Il crocevia superiore era identico a quello precedente, ma meno affollato, e si capiva che, per quanto la Repubblica Lunare Indipendente si proclamasse democratica, c’erano in essa le sottili distinzioni di classe che si riscontrano in tutte le forme di civiltà umana. Qui non c’era l’aristocrazia di ricchezza o di nascita, ma l’aristocrazia creata dalla responsabilità sarebbe sempre esistita. In quel posto, non si poteva sbagliare, vivevano quelli che governavano la Luna. Possedevano qualche bene e molte preoccupazioni più dei loro concittadini dei piani sottostanti, e tra un livello e l’altro gli scambi erano continui.
La piccola guida si fermò davanti a una porta e disse: — Eccoci arrivati. — La semplicità della dichiarazione fu neutralizzata dal sorriso di autocompiacimento che illuminava la faccia del bambino. Sadler stava pensando se doveva o no dargli la mancia, quando questo piccolo dilemma sociale venne risolto dalla guida che dichiarò: — Più di dieci piani fanno quindici soldi.
“Ah, dunque c’è una tariffa” commentò Sadler fra sé, e tese al bambino una moneta di valore superiore. Con sua sorpresa, il piccolo gli diede il resto: Sadler non si era reso conto che le note virtù lunari di onestà, iniziativa e lealtà erano radicate negli individui fin dall’infanzia.
— Non andartene — disse al bimbo mentre suonava il campanello. — Se per caso non c’è nessuno, mi riaccompagni giù.
— Non avete telefonato prima? — domandò il piccolo, guardandolo incredulo.
Sadler pensò che era inutile dargli una spiegazione. Gli energici coloni lunari (e che Dio lo guardasse dal chiamarli così a voce alta) disprezzavano le stravaganze e l’imprecisione degli antiquati Terrestri.
Comunque, sarebbe stato inutile telefonare, perché la persona che desiderava vedere era in casa.
— Non so se vi ricordiate di me — disse Sadler. — Mi trovavo all’Osservatorio Platone durante la battaglia di Pico. Sono Bertrand Sadler.
— Avete detto Sadler?… Mi spiace, ma così su due piedi non mi ricordo di voi. Entrate, mi fa sempre piacere ritrovare un vecchio amico.
Sadler entrò nell’appartamento, guardandosi intorno pieno di curiosità. Era la prima volta che entrava in una casa privata, sulla Luna, e come si era aspettato non c’era nulla che la differenziasse nettamente da un’abitazione terrestre dello stesso genere. Il fatto che fosse una celletta di un immenso alveare non ne diminuiva il suo valore di casa: erano passati ormai quasi due secoli, da che, salvo per un’esigua minoranza, la gente non viveva più in edifici separati, isolati. La parola casa aveva cambiato significato, col passare del tempo.
Nella sala di soggiorno, però, c’era qualcosa che una comune famiglia terrestre avrebbe trovato troppo antiquato. Si trattava di una foto murale animata, che occupava mezza parete, di una specie che Sadler non vedeva più da anni. Raffigurava un pendio alpino, chiazzato di neve, che dominava un villaggio situato a un chilometro circa più in basso. Nonostante la distanza apparente, tutti i particolari erano nitidissimi: le casette e la chiesa-giocattolo avevano i contorni netti e ben definiti degli oggetti visti dalla parte sbagliata di un binocolo. Al di là del villaggio, il terreno tornava a innalzarsi, sempre più ripido fino a svettare nell’enorme montagna che si stagliava contro il cielo, ornata sulla cima da un pennacchio di neve perenne che il vento sollevava e agitava.
Si trattava, come pensò Sadler, di una scena registrata un paio di secoli prima. Tuttavia avrebbe potuto essere stata ripresa in epoca più recente: la Terra riserba ancora simili sorprese, negli angoli fuori mano.
Prese la sedia che l’altro gli offriva e, per la prima volta da che era entrato, guardò colui che aveva anteposto ai suoi importanti affari. — Non vi ricordate di me? — domandò.
— Temo di no… ma non sono fisionomista, e i nomi mi sfuggono.
— Adesso ho circa il doppio dell’età di allora, quindi non c’è da stupirsi. Però voi non siete cambiato, professor Molton. Ricordo benissimo che foste la prima persona dell’Osservatorio a cui rivolsi la parola. Eravamo sul treno monorotaia proveniente da Central City e ammirammo insieme lo spettacolo del Sole che illuminava gli Appennini. Era qualche giorno prima della Battaglia di Pico, e la prima volta che venivo sulla Luna.
Sadler capiva che Molton non riusciva proprio a ricordare. Dopo tutto erano passati trent’anni.
— Non importa — continuò. — Non mi aspettavo che mi ricordaste, tanto più che non ero un vostro collega. Fui all’Osservatorio solo in veste di visitatore, e per poco tempo. Sono un contabile, io, non un astronomo.
— Ah, sì? — disse Molton, ancora incerto.
— Tuttavia, nonostante ufficialmente fossi all’Osservatorio per esaminarne la contabilità, le mie mansioni erano assai diverse. Allora, ero un agente del controspionaggio, incaricato di indagare su come fossero trapelate certe informazioni.
Stava osservando intensamente l’espressione del vecchio e vi colse, senza possibilità di dubbio, un lampo di sorpresa. Dopo un breve silenzio, Molton riprese: — Mi sembra di ricordare. Però avevo dimenticato il nome. È passato tanto tempo!
— Certo — ammise Sadler. — Però sono sicuro che vi ricorderete di alcune cose. La mia è una visita privata; ora non sono che un contabile, e basta. Posso dire, con un po’ di orgoglio, di aver fatto una bella carriera. Faccio parte dello studio Carter, Heargraves e Tilloston, e sono venuto qui per partecipare a una conferenza delle corporazioni lunari. Se volete una conferma, informatevi alla Camera di Commercio.