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— Non riesco a capire… — cominciò Molton.

— Che cosa c’entriate voi? Ecco, lasciate che vi risvegli la memoria. Dunque, fui inviato all’Osservatorio per una indagine. C’era qualcuno che forniva indicazioni alla Federazione, e non si sapeva chi fosse né come ci riuscisse. Uno dei nostri agenti riferì che la falla era all’Osservatorio, così io venni mandato a dare un’occhiata.

— Andate avanti — fece Molton. Con un breve sorriso, Sadler continuò: — Sono un bravo contabile, ma come agente del controspionaggio dimostrai di non saperci fare. Sospettavo un sacco di gente, e alla fine non scoprii nulla, tranne un truffatore.

— Jenkins — l’interruppe all’improvviso Molton.

— Esatto, vedo che la vostra memoria non è così cattiva, professore. Comunque, non riuscii a smascherare la spia. Anzi, non riuscii neppure a provare la sua esistenza, sebbene battessi tutte le piste possibili. Naturalmente l’incarico un bel giorno finì, e io fui lieto di tornare al mio lavoro abituale. Ma in tutti questi anni mi ha turbato una discrepanza nel libro mastro: si trattava di una perdita, capite, e a me piace essere sempre all’attivo. Ma ormai avevo rinunciato a sanarla, quando, una quindicina di giorni fa, lessi il libro del commodoro Brennan. Voi lo avete letto?

— No, sebbene ne abbia sentito molto parlare.

Sadler frugò nella cartella che aveva con sé, ne tolse un grosso volume e lo porse a Molton.

— Ne ho portato una copia per voi. Sono sicuro che v’interesserà moltissimo. È un libro sensazionale, come del resto potrete giudicare dal gran parlare che se ne fa in tutto il Sistema. Non ha peli sulla lingua, e capisco come molti, nella Federazione, si trovino a disagio. Ma non è questo che m’interessa. Quello che ho trovato affascinante è stato il resoconto degli eventi che hanno condotto alla Battaglia di Pico. Immaginate la mia sorpresa quando ho letto che la Federazione aveva ricevuto informazioni di capitale importanza dall’Osservatorio. Vi cito il passo: “Uno dei più grandi astronomi terrestri, con un brillante sotterfugio tecnico, ci tenne informati degli sviluppi della situazione nel corso della costruzione del Progetto Thor. Non sarebbe leale dirne il nome, ma egli vive, in onorato riposo, sulla Luna”.

Ci fu una lunga pausa, la faccia rugosa di Molton pareva una maschera di granito, e non lasciava trapelare alcun sentimento.

— Professor Molton — continuò Sadler con enfasi — spero che mi crederete se vi ripeto che sono venuto qui in visita privata, spinto solo dalla curiosità. Inoltre siete cittadino della Repubblica, quindi, anche se volessi, non potrei farvi niente. Ma so che eravate voi la spia. La descrizione calza, e ho eliminato tutte le altre possibilità. Inoltre, alcuni miei amici della Federazione hanno dato una occhiata, privatissima, s’intende, agli archivi. È inutile dunque che fingiate di non saperne niente. Se non volete parlare, me ne andrò. Ma se siete disposto a farlo, e non vedo perché non dovreste, ormai, ve ne sarei molto grato, perché ci terrei moltissimo a sapere come facevate.

Molton aveva aperto il libro del commodoro Brennan e ne sfogliava l’indice. Poi scosse la testa.

— Non avrebbe dovuto parlarne — osservò seccamente, come tra sé. Sadler si lasciò sfuggire un sospiro di soddisfazione mentre lo scienziato si volgeva bruscamente verso di lui per domandargli: — Se ve ne parlo, che uso farete delle mie informazioni?

— Nessun uso, ve lo giuro.

— Qualche mio collega potrebbe risentirsene, anche se è passato tanto tempo. Non fu facile, sapete, e neppure divertente. Ma la Terra doveva smetterla di comportarsi come faceva, e io sono convinto di aver agito per il meglio.

— Il professor Jamieson… è lui il direttore, adesso, no? era della stessa idea, però non la mise in pratica.

— Lo so. Una volta mancò un pelo che mi confidassi con lui, ma forse è stato meglio che le cose siano andate così.

Molton s’interruppe per riflettere, e la sua faccia si spianò in un sorriso.

— Adesso ricordo — disse. — Vi feci vedere il mio laboratorio… Sospettavo un po’ di voi, sapete, perché mi pareva strano che aveste scelto quel momento per venire. Vi mostrai proprio tutto, finché vidi che vi annoiavate e ne avevate abbastanza.

— Era una cosa che succedeva spesso — osservò Sadler. — C’erano tanti di quegli strumenti, all’Osservatorio.

— Alcuni dei miei, però, erano unici. Neppure un mio collega avrebbe potuto sapere a che cosa servivano. Credo che voi cercaste una radio trasmittente, o qualcosa del genere, no?

— Sì. Avevamo dei rivelatori, ma non trovammo mai niente.

Molton, era chiaro, cominciava a divertirsi. Forse anche lui era rimasto un po’ deluso in tutti quei trent’anni, pensava Sadler, non avendo mai potuto parlare con nessuno di come era riuscito a farsi beffe del Dipartimento Terrestre della Sicurezza.

— Il bello è che il mio trasmettitore era messo bene in vista — proseguì Molton, — Anzi, debbo dire che era uno degli oggetti più evidenti, all’Osservatorio. Sapete, si trattava del telescopio da dieci metri.

Sadler lo guardò, incredulo.

— Non vi capisco.

— Pensate bene — riprese Molton, con tono da professore universitario, qual era stato dopo aver lasciato l’Osservatorio — a quello che fa un telescopio. Raccoglie la luce da un’esigua porzione di cielo, e la mette accuratamente a fuoco su di una lastra fotografica o sulla fessura di uno spettroscopio. Ma… un telescopio può funzionare in due sensi.

— Comincio a intuire.

— Il mio programma di osservazione comprendeva l’uso del dieci metri per studiare le stelle deboli. Lavoravo nel remoto ultravioletto che, naturalmente, è invisibile all’occhio umano. Mi bastava sostituire i miei abituali strumenti con una lampada a raggi ultravioletti, e immediatamente il telescopio diventava un riflettore di grande potenza e precisione, che emetteva un raggio così corto da poter essere captato solo nell’esatta porzione di cielo in cui io lo dirigevo. Trasmettere il raggio a intervalli, a scopo di segnalazione, era, come potete capire, cosa da nulla. Non potevo trasmettere personalmente in Morse, però costruii un modulatore automatico che lo faceva per me.

Sadler assaporava lentamente la rivelazione. Una volta esposta, l’idea pareva ridicolmente semplice. Sì, qualunque telescopio, adesso che ci pensava, doveva essere in grado di funzionare nei due sensi: raccogliere la luce delle stelle e mandare un raggio quasi esattamente parallelo a esse, accendendo una luce dalla parte dell’oculare. Molton aveva semplicemente trasformato il riflettore da dieci metri nella più grande torcia elettrica che fosse mai stata costruita.

— Dove dirigevate le vostre segnalazioni? — domandò.

— La Federazione aveva inviato una piccola astronave a circa dieci milioni di chilometri. Era convenuto che l’astronave si trovasse sempre in linea fra me e una piccola stella del cielo settentrionale sempre visibile sul mio orizzonte. Quando dovevo inviare una segnalazione (loro naturalmente, sapevano quando avevo i miei turni al telescopio) non avevo che da puntare il telescopio, ed ero sicuro che mi ricevevano. Avevano un piccolo telescopio, a bordo, con un ricevitore ultravioletto. Si tenevano in normale contatto radio con Marte. Mi capitava spesso di pensare quanto dovessero annoiarsi lassù, con nient’altro da fare che aspettare le mie segnalazioni. Certe volte passavano giorni e giorni senza che trasmettessi niente.

— Un’altra cosa mi interesserebbe sapere — l’interruppe Sadler. — Come ottenevate le informazioni?

— Oh, c’erano due metodi. Ricevevamo copie di tutti i giornali astronomici ed eravamo d’accordo che nelle pagine di certi, fra cui, per esempio, “L’Osservatorio”, ci fossero scritte fluorescenti, che potevano essere rivelate dalla luce ultravioletta. Nessuno, leggendo nel modo normale, avrebbe visto niente.