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Questa tesi era stata scritta un paio d’anni prima dal professor Roland Phillips, pacifico cosmologo di Oxford, che non s’interessava minimamente di politica. Il professore l’aveva data in visione alla “Royal Astronomical Society”, ed era diventato sempre più difficile dargli una spiegazione soddisfacente sul ritardo della pubblicazione. Disgraziatamente — e questo era il fatto che aveva molto preoccupato il Central Intelligence — il professor Phillips aveva innocentemente inviato copie del lavoro ai colleghi di Marte e di Venere. Erano stati fatti tentativi disperati per intercettarle, ma invano. A quell’ora, la Federazione doveva sapere che la Luna non era quel mondo impoverito che si credeva da duecento anni.

Non si poteva certo far sì che quella notizia, una volta divulgata, venisse ignorata: ma c’erano molte altre cose relative alla Luna, e ugualmente importanti, di cui la Federazione non doveva venire a conoscenza. E invece ne veniva informata. Le notizie arrivavano in modo misterioso dalla Terra alla Luna, e da qui ai pianeti.

Quando c’è una falla nelle tubature di casa, si chiama l’idraulico, ma come si può porre rimedio a una falla invisibile… e che può trovarsi ovunque, sulla superficie di un mondo grande quanto l’Africa?

Sadler ignorava quasi del tutto gli scopi e i metodi del Central Intelligence, ed era ancora risentito per il modo in cui era stata violata la sua vita privata. Il suo vero mestiere era proprio quello sotto cui ora si celava: il contabile. Ma sei mesi prima, per motivi che non gli erano stati spiegati, e che probabilmente lui non avrebbe scoperto mai, lo avevano interrogato e gli era stato offerto un lavoro generico. Aveva accettato soprattutto perché gli avevano fatto capire che avrebbe fatto bene a non rifiutare. Da quel momento praticamente era vissuto per mesi in stato ipnotico, e gli avevano pompato nella testa le più svariate nozioni, mentre conduceva una vita monastica in un angolo sperduto del Canada. (Per lo meno lui credeva che fosse il Canada, ma sarebbe anche potuto essere la Groenlandia o la Siberia). E adesso lo avevano naandato qui sulla Luna, pedina di un gioco di scacchi interplanetario. Non vedeva l’ora che tutto finisse e gli pareva incredibile che uno potesse diventare volontariamente agente segreto. Solo individui squilibrati e immaturi potevano, a suo parere, trarre soddisfazioni da una condotta così falsa e così poco civile.

C’erano, è vero, alcuni lati positivi anche se pochi. Normalmente lui non avrebbe mai avuto l’occasione di andare sulla Luna, e l’esperienza che stava facendosi ora avrebbe potuto rivelarsi della massima utilità fra qualche anno. Sadler si sforzava sempre di essere di larghe vedute, specie quando il presente lo deprimeva. E ora, sia sul piano personale sia su quello interplanetario, la situazione era alquanto deprimente.

Era forse responsabile della salvezza della Terra, ma si trattava di una responsabilità troppo grande per un uomo solo. Era per questo motivo che Sadler faceva vertere di preferenza i suoi pensieri su Jeanette, anziché sulla salvezza della Terra. Lo avrebbe perdonato, Jeanette, si chiedeva, di trascorrere lontano da lei il loro anniversario di nozze? Probabilmente si aspettava che lui, per lo meno, le telefonasse. E invece questa era proprio una cosa che non osava fare. Per sua moglie e i suoi amici, lui era ancora sulla Terra. Non avrebbe potuto telefonare dalla Luna senza rivelare la località, perché sarebbero bastati i due secondi e mezzo d’intervallo a tradirlo subito. Il Central Intelligence era in grado di provvedere a molte cose, ma non aveva certo il potere di accelerare le onde radio. Tutt’al più avrebbe fatto arrivare il regalo a Jeanette, come gli aveva promesso, però non era in grado di dirle quando Sadler sarebbe tornato a casa. E non poteva neppure mutare il fatto che, per tenere segreta la sua decisione, lui doveva mentire a sua moglie nel sacro nome della Sicurezza.

3

Quando ebbe confrontato le striscioline, Conrad Wheeler si alzò e fece per tre volte il giro della stanza. Dal modo come si muoveva, un veterano avrebbe potuto dire che Wheeler era relativamente nuovo della Luna. Infatti, solo da sei mesi si trovava all’Osservatorio e non era ancora del tutto abituato alla bassa gravità del satellite.

Per una innata tendenza a trarre conclusioni avventate, Wheeler aveva a volte commesso errori. Adesso però non poteva assolutamente avere dubbi. I fatti erano irrefutabili, la risposta tale da levare il fiato: laggiù, nelle profondità dello spazio, una stella era esplosa con violenza inimmaginabile. Wheeler diede un’occhiata alle cifre che aveva scarabocchiato, le controllò forse per la decima volta e allungò una mano verso il telefono.

All’altro capo del filo, Sid Jamieson brontolò contro il disturbatore inopportuno.

— È proprio tanto importante? — si lamentò. — Sono in camera oscura e sto facendo un lavoro per il vecchio. A ogni modo devo aspettare che queste lastre si asciughino.

— Quanto ci vorrà?

— Oh, circa cinque minuti. Ma poi ho altre cose da fare.

— Io credo che sia davvero importante. Basta un minuto. Sono su, a Strumentazione Cinque.

Jamieson stava ancora asciugandosi le mani quando entrò. Benché fossero passati trecento anni dalla sua invenzione, la fotografia era rimasta sotto molti aspetti immutata. Wheeler, per il quale tutto doveva effettuarsi elettronicamente, considerava molte delle attività dell’amico come relitti dell’era dell’alchimia.

— Allora? — disse Jamieson, parco di parole come suo solito.

Wheeler additò la strisciolina di carta forata sulla sua scrivania.

— Stavo eseguendo il normale controllo dell’integratore di grandezza, quando è saltato fuori qualche cosa.

— Sempre così! — commentò Jamieson. — Qui all’Osservatorio c’è sempre qualcuno convinto di aver scoperto un pianeta nuovo.

Lo scetticismo di Jamieson era giustificabile. L’integratore era uno strumento ingannevole, che si poteva facilmente fraintendere e che molti astronomi consideravano più fastidioso che utile. Ma si trattava di uno degli strumenti prediletti del direttore, e perciò non c’era speranza di eliminarlo finché non ci fossero stati cambiamenti nell’amministrazione. Maclaurin stesso l’aveva creato, ai tempi in cui poteva ancora dedicarsi all’astronomia pratica. Era un guardiano automatico del cielo, capace di aspettare pazientemente anni e anni che una nuova stella — una nova — esplodesse nello spazio. Allora avrebbe suonato il campanello per attirare l’attenzione.

— Guarda — fece Wheeler — lì c’è la registrazione.

Jamieson inserì la strisciolina nel convertitore, copiò le cifre ed eseguì un rapido calcolo. Wheeler ebbe un sorriso di soddisfazione notando che l’amico spalancava la bocca.

— Tredici grandezze in ventiquattr’ore! Incredibile!

— Io ho calcolato tredici virgola quattro, ma è abbastanza anche così. Per conto mio è una supernova. E vicina, anche.

I due giovani astronomi si guardarono in silenzio, pensosi. Poi Jamieson disse: — Troppo bello per essere vero. Non andarlo a raccontare in giro finché non ne saremo sicuri. Esaminiamo prima lo spettro, e fino ad allora trattiamola come una nova normale.

Wheeler aveva uno sguardo sognante.

— Quando è stata notata l’ultima supernova della nostra galassia?

— Si trattava della stella di Tycho… no, non quella, deve essercene stata un’altra un po’ più tardi, verso il Milleseicento.

— Comunque è passato un bel po’ di tempo. Con questo, dovrei tornare in buona col direttore.

— Può darsi — rispose seccamente Jamieson. — Ci vorrebbe proprio una supernova per rabbonirlo. Vado a preparare lo spettrografo mentre tu stendi il rapporto. Non dobbiamo essere avidi, anche gli altri osservatori vorranno essere messi al corrente. — Guardò l’integratore, che aveva ripreso la sua paziente guardia del cielo. — Credo che tu ti sia guadagnato quel che sei costato — aggiunse — anche se non scoprirai mai più altro se non le luci delle astronavi in navigazione.