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Sadler sentì la notizia un’ora dopo, nella sala di ritrovo, senza restarne particolarmente impressionato. Era troppo preoccupato dai suoi problemi e dalla montagna di lavoro che l’attendeva per prestare soverchia attenzione al normale lavoro dell’Osservatorio. Il segretario Wagnall, però, si affrettò a fargli capire che non si trattava di “normale lavoro”.

— Ecco qualcosa da scrivere sul vostro bilancio — disse allegramente. — La maggiore scoperta che sia avvenuta da anni. Venite sul tetto.

Sadler lasciò cadere la copia del “Time Interplanetary” che aveva letto con noia crescente. La rivista cadde con quella lentezza da incubo a cui Sadler non si era ancora abituato.

Oltrepassarono il piano degli alloggi, quello dell’Amministrazione, dell’Energia e Trasporti, ed emersero in una delle piccole cupole d’osservazione. La bolla di plastica aveva un diametro di dieci metri scarsi, e le persiane che la proteggevano nel corso della giornata lunare erano sollevate. Wagnall spense le luci interne, e i due uomini si misero a guardare le stelle e la Terra. Sadler era già salito altre volte lassù e gli pareva che quella fosse la migliore cura per quando aveva la mente affaticata.

A duecentocinquanta metri di distanza, la grande lente del più enorme telescopio mai costruito dall’uomo era puntata verso un punto del cielo meridionale. Sadler sapeva che il telescopio teso a ispezionare i limiti dello spazio a un miliardo di anni luce dal punto di partenza vedeva stelle che i suoi occhi non avrebbero mai visto, stelle che non facevano parte di questo universo.

Poi, d’un tratto, cominciò a ruotare verso nord.

— Molta gente si strapperà i capelli, adesso — disse ridendo il segretario Wagnall. — Abbiamo interrotto il programma per puntare il cannone sulla Nova Draconis. Vediamo se riusciamo a trovarla.

Continuò a cercare per un po’ consultando appunti. Sadler, gli occhi fissi al nord, non riusciva a scorgere niente d’insolito. Tutte le stelle, lassù, gli parevano le stesse di sempre. Ma poi, seguendo le istruzioni di Wagnall e usando come guida l’Orsa Maggiore e la Stella Polare, riuscì a distinguere la debole stella nelle profondità del cielo settentrionale. Non faceva proprio nessun effetto, anche se si pensava che, due giorni prima, soltanto i maggiori telescopi potevano scorgerla e che la sua lucentezza era aumentata a dismisura in poche ore.

Wagnall dovette intuire la sua delusione, perché disse: — Forse ora non farà un grande effetto, ma siamo solo al principio. Se saremo fortunati, fra un paio di giorni vedremo qualcosa di grosso.

Giorni lunari o terrestri?

Si faceva un po’ di confusione a questo proposito. Tutti gli orologi funzionavano col sistema delle ventiquattr’ore, secondo il tempo medio di Greenwich. Uno dei vantaggi secondari di questo era che bastava dare un’occhiata alla Terra per controllare l’ora con sufficiente precisione. Però, l’avanzare della luce o delle tenebre sulla superficie lunare non aveva il minimo rapporto con quello che dicevano gli orologi. Questi, infatti, segnavano mezzogiorno indipendentemente dal fatto che il Sole si trovasse sopra o sotto l’orizzonte.

Sadler staccò lo sguardo dal nord, per riportarlo sull’Osservatorio. Aveva sempre creduto, senza preoccuparsi di sincerarsene, che un osservatorio fosse composto da un agglomerato di gigantesche cupole, dimenticando che qui sulla Luna, dove non esistevano intemperie, era perfettamente inutile tenere gli strumenti al riparo. Il riflettore da mille centimetri e i suoi compagni più piccoli si ergevano nudi e senza protezione nel vuoto dello spazio. Solo i loro fragili padroni se ne stavano sottoterra, nel tepore della città sepolta.

L’orizzonte era pressoché piatto in ogni direzione. Sebbene l’Osservatorio si trovasse al centro della vasta pianura di Platone, cinta di pareti rocciose, l’anello di montagne era invisibile a causa della curvatura della Luna. Era un paesaggio monotono e desolato, una pianura polverosa, forata qua e là da buche e piccoli crateri su cui torreggiava l’enigmatica opera dell’uomo, puntata verso le stelle a carpirne i segreti.

Mentre lasciavano il locale, Sadler diede un’ultima occhiata alla costellazione del Drago, ma già si era dimenticato quale delle diafane stelle vicino al polo fosse quella che lui era venuto a vedere.

— Ma perché — domandò a Wagnall con tutta la diplomazia di cui si sentì capace, per non urtare la suscettibilità dell’altro — perché questa stella è tanto importante?

Wagnall parve dapprima sorpreso, poi urtato, poi sembrò addirittura che non avesse capito.

— Ecco — cominciò — secondo me le stelle sono come gli uomini. Quelle che si comportano bene non attirano mai l’attenzione. C’insegnano qualche cosa, naturalmente, ma possiamo imparare molto di più da quelle che escono dalla normalità.

— E capita sovente che le stelle si comportino in modo anomalo?

— Nella nostra galassia ne esplodono circa un centinaio ogni anno, ma sono soltanto nove comuni. Quando raggiungono il punto massimo, possono diventare centomila volte più luminose del Sole. Una supernova è molto più rara e molto più interessante. Non sappiamo ancora quali ne siano le cause, ma quando una stella si trasforma in supernova può diventare parecchi miliardi di volte più luminosa del Sole, tanto da oscurare con la sua lucentezza tutte le altre stelle della galassia messe insieme.

Sadler ci meditò sopra per un poco. Certo, era un pensiero tale da richiedere un momento di riflessione.

— L’importante — continuò Wagnall — è che non è mai successo niente del genere da quando sono stati inventati i telescopi. L’ultima supernova del nostro universo fu vista seicento anni fa. Ce ne sono state moltissime nelle altre galassie, ma erano troppo lontane perché le si potesse esaminare. Questa, invece, è qui a due passi. Tra un paio di giorni la si vedrà bene. Fra poche ore avrà superato in lucentezza tutti gli altri corpi celesti, eccettuati il Sole e la Terra.

— E che cosa imparerete da essa?

— L’esplosione di una supernova è il più titanico dei fenomeni naturali. Saremo in grado di studiare il comportamento della materia in condizioni tali al cui confronto un’esplosione nucleare sembrerà una calma mortale. Ma se voi siete di quei tipi che vogliono sempre vedere il lato pratico delle cose, vi interesserà sapere perché una stella esplode, no? Tanto più che un giorno o l’altro anche il nostro Sole potrebbe fare lo stesso.

— E in questo caso — disse Sadler — preferirei non saperlo in anticipo. Quella nova aveva dei pianeti?

— Non c’è modo di saperlo. Ma è una condizione che può verificarsi abbastanza spesso, perché almeno una stella su dieci ha un sistema planetario.

Era un pensiero agghiacciante. In ogni momento, in un punto dell’universo, un sistema solare popolato di gente sconosciuta, dall’ignota civiltà, poteva venire gettato come se niente fosse in una fornace cosmica. La vita era un fenomeno fragile e delicato, in bilico tra il calore e il gelo.

Ma all’uomo non erano sufficienti i rischi offerti dalla natura; si dava un gran da fare per erigere con le proprie mani la sua pira funebre.

Lo stesso pensiero era venuto anche al dottor Molton, che però, contrariamente a Sadler, poteva fronteggiarlo con un altro più rincuorante. La Nova Draconis era lontana più di 2000 anni luce, il bagliore della sua esplosione stava viaggiando nello spazio da quando Cristo era nato. In questo periodo doveva essere passato attraverso milioni di sistemi solari, richiamando l’attenzione degli abitanti di migliaia di mondi. Anche ora, sparsi sulla superficie di una sfera del diametro di 4000 anni luce, dovevano sicuramente esserci altri astronomi muniti di strumenti non molto dissimili dal suo, intenti ad afferrare le irradiazioni di quel sole morente man mano che esse si propagavano verso i confini dell’universo. E poi era anche più strano pensare che osservatori infinitamente più lontani, così lontani che per loro tutta la galassia non era che un puntolino luminoso, avrebbero notato fra cento milioni di anni che quell’isola del nostro universo aveva per un attimo intensificato la propria luminosità…