Выбрать главу

Il dottor Molton stava ritto davanti al tavolo dei comandi nella stanza illuminata da luci discrete che gli serviva da laboratorio e da officina. Una volta quella stanza era uguale alle altre cellette che costituivano l’Osservatorio, ma ora il suo occupante le aveva impresso il segno della propria personalità. In un angolo c’era un vaso di fiori artificiali che erano tanto incongrui quanto inaspettatamente piacevoli in un posto come quello. Era l’unica stranezza di Molton, e nessuno ci trovava da ridire. Dal momento che la vegetazione lunare offriva scarsissime possibilità d’ornamento, lui era costretto a ricorrere a creazioni di cera e fil di ferro, abilmente preparate a Central City. Ne variava con tale ingegnosità le combinazioni che i fiori sembravano diversi da un giorno all’altro.

Talvolta Wheeler si faceva gioco di lui per questa sua mania, affermando che era una prova di nostalgia e che avrebbero dovuto rimandarlo sulla Terra. Erano infatti tre anni che il dottor Molton mancava dalla sua Australia, ma pareva che non avesse fretta di tornarci. Come amava far osservare, lassù aveva lavoro anche se fosse vissuto cento volte più di quanto il padreterno aveva deciso, e preferiva lasciar accumulare le licenze finché non avesse avuto voglia di prenderle tutte in una volta.

I fiori erano attorniati da schedari contenenti le migliaia di spettrogrammi raccolti da Molton nel corso delle sue ricerche. Quando qualcuno protestava per un dato troppo strano, Molton non faceva altro che andare a controllare nei suoi schedari e, constatato che non c’era errore, ribatteva: «Non prendetevela con me. La colpa è di madre natura».

Il resto della stanza era occupato da una accozzaglia di strumenti del tutto incomprensibili agli occhi di un profano e sconosciuti anche a molti astronomi. Molton ne aveva creati la maggior parte sia di sua mano sia affidandone il progetto agli assistenti perché lo traducessero in realtà. Negli ultimi secoli gli astronomi pratici erano diventati anche un po’ elettricisti, ingegneri e fisici e, poiché il costo degli strumenti andava aumentando di continuo, anche uomini d’affari.

I comandi elettronici sfrecciarono silenziosamente attraverso i cavi, mentre Molton stabiliva i contatti. Lassù, molto in alto, al di sopra della sua testa, il grande telescopio, simile a un mastodontico cannone, si spostò, ruotando lentamente verso nord. Il grande specchio alla base del tubo captava luce più di quanta l’occhio umano ne potesse afferrare e la concentrava con ammirevole precisione in un singolo raggio che, riflesso da uno specchio all’altro come in un periscopio, giungeva fino al dottor Molton il quale ne disponeva a suo piacimento. Se avesse guardato direttamente il raggio, lo straordinario bagliore della nova lo avrebbe accecato. Del resto, paragonati agli altri strumenti di cui disponeva, i suoi occhi erano ben povera cosa.

Mise in funzione lo spettrometro elettronico e cominciò gli esami.

Lo strumento avrebbe esplorato la nova con pazienza e precisione, passando attraverso il giallo, il verde, il blu, per giungere fino al violetto e all’ultravioletto, assai oltre la capacità dell’occhio umano. Nel corso delle sue indagini avrebbe lasciato sul nastro in movimento la traccia dell’intensità di ogni linea spettrale, che avrebbe costituito una testimonianza incontrovertibile a disposizione degli astronomi per i millenni a venire. Si udì bussare alla porta, e Jamieson entrò recando alcune lastre fotografiche ancora umide.

— Le ultime esplorazioni ce l’hanno fatta! — esclamò giubilante. — Mostrano l’involucro gassoso che si espande intorno alla nova. E la velocità concorda con i vostri esami Dopler.

— Lo spero bene — borbottò Molton. — Diamoci un’occhiata.

Studiò le lastre mentre i motori elettrici dello spettrometro che continuava le sue ricerche ronzavano incessantemente. Le lastre erano negative, naturalmente, ma come tutti gli astronomi anche lui era abituato a interpretarle facilmente.

Al centro si vedeva il piccolo disco segnato dalla Nova Draconis che aveva bruciato la lastra nella lunga esposizione. Intorno a esso, appena visibile a occhio nudo, c’era un tenue anello. Molton sapeva che, col passare dei giorni, l’anello si sarebbe ingrandito nello spazio fino a dissolversi. Pareva talmente piccola e insignificante che la mente umana non poteva capacitarsi di quello che fosse nella realtà.

Guardavano nel passato, a una catastrofe avvenuta duemila anni prima. Quello che si vedeva era l’involucro fiammeggiante. Una muraglia di fuoco in espansione, che avrebbe potuto inghiottire qualche pianeta senza diminuire di velocità. E purtroppo, dalla Terra, non appariva che un anello diafano appena visibile.

— Chissà se riusciremo mai a scoprire perché una stella si comporta a questo modo? — disse Jamieson.

— A volte, quando ascolto la radio — ribatté Molton — penso che sarebbe una buona idea se succedesse anche da queste parti. Il fuoco è un ottimo sterilizzante.

Jamieson rimase perplesso. Quello sfogo era assai poco consono al comportamento normale di Molton, i cui modi bruschi celavano tanto intimo calore.

— Non parlate sul serio.

— Forse no. Nell’ultimo milione di anni abbiamo fatto qualche progresso, e credo che un astronomo dovrebbe essere paziente. Ma guardate un po’ il pasticcio in cui stiamo impelagandoci. Non vi siete mai domandato dove andremo a finire?

Dietro queste parole si celava una passione, una profondità di sentimento che stupirono Jamieson turbandolo profondamente. Prima d’allora. Molton non si era mai scoperto fino a quel punto, anzi, non aveva mai dimostrato di nutrire sentimenti profondi su altri argomenti che esulassero dal suo lavoro. Jamieson era conscio di aver assistito al momentaneo cedimento di un controllo ferreo. Questo pensiero risvegliò qualcosa nella sua mente, e come un cavallo spaventato indietreggiò all’urto sgradevole di quell’idea.

I due scienziati si fissarono per un lungo istante, valutandosi, superando l’abisso che divide ciascuno dal suo prossimo. Poi, con un aspro ronzio, lo spettrometro automatico avvisò di aver terminato il suo compito. La tensione era spezzata, il mondo di tutti i giorni tornava ad avvilupparli. E così, un attimo che avrebbe potuto ingigantire fino ad avere conseguenze incalcolabili vibrò sul limite dell’essere e poi tornò ancora una volta nel limbo.

4

Sadler la sapeva abbastanza lunga per non aspettarsi un ufficio tutto per sé. Il massimo che poteva sperare era una modesta scrivania in un angolo della Sezione Contabilità, e infatti fu proprio quanto riuscì a ottenere. Ma non era, questa, una cosa che lo preoccupava: la sua maggior preoccupazione era di non dar fastidio e di non attirare troppo l’attenzione su di sé, inoltre passava pochissimo tempo seduto alla scrivania. La stesura finale del suo rapporto venne eseguita nell’intimità della sua stanza, o più precisamente, del suo sgabuzzino, grande quel tanto che bastava per evitare un attacco di claustrofobia e che era una delle cento identiche cellette situate sul Piano Residenziale.

Gli ci erano voluti diversi giorni per abituarsi a quel modo di vita completamente artificiale. Poi, nel cuore della Luna, il tempo non esisteva. Gli effetti dei violenti sbalzi di temperatura fra il giorno e la notte non penetravano nella roccia per più di un paio di metri. Solo gli orologi degli uomini scandivano il passare dei secondi e dei minuti. Ogni ventiquattr’ore le luci dei corridoi si smorzavano, e si fingeva che fosse notte. Ma anche allora l’Osservatorio non dormiva, perché c’era sempre qualcuno di turno, a qualsiasi ora. Gli astronomi, naturalmente, erano abituati a lavorare nelle ore più strane, con gran dispetto delle loro mogli… a meno che non fossero astronome anche loro, e il ritmo della vita lunare non pesava in nessun modo su quella categoria. Si lamentavano invece i tecnici che dovevano provvedere all’aria, all’energia, alle comunicazioni, insomma a tutti quegli innumerevoli servizi che funzionavano ventiquattr’ore su ventiquattro.