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Questo era lo strano mondo dove ora abitavano alcune migliaia di esseri umani. Nonostante tutta la sua asprezza, i suoi abitatori lo amavano e non desideravano tornare sulla Terra dove la vita era facile e aveva poco da offrire agli spiriti avventurosi e dotati d’iniziativa. In realtà, la colonia lunare, per quanto legata alla Terra da vincoli economici, era più affine ai pianeti della Federazione. Su Marte, Venere e Mercurio, e sui satelliti di Giove e di Saturno, gli uomini combattevano una guerra da pionieri contro la natura, così come avevano fatto, e vittoriosamente, sulla Luna. Marte era già stato completamente conquistato, ed era l’unico mondo, oltre alla Terra, dove l’uomo poteva circolare all’aperto senza l’uso di apparati speciali. Su Venere la vittoria era prossima, e il premio era costituito da una superficie di territorio grande tre volte quello della Terra. Altrove c’erano solo degli avamposti: l’ardente Mercurio e il gelo dei mondi più lontani costituivano una sfida per i secoli futuri.

Così pensava la Terra. Ma la Federazione non poteva aspettare, e il professor Phillips, del tutto innocentemente, aveva dato una spinta all’impazienza delle colonie. Non era la prima volta che un documento scientifico mutava il corso della storia, e non sarebbe stata l’ultima.

Sadler non aveva mai visto quelle pagine di matematica, causa di tanti guai, ma conosceva le conclusioni a cui esse portavano. Le aveva imparate nei sei mesi di segregazione voluti dal Central Intelligence.

La faccia della Luna, gli avevano detto, è formata da due distinte specie di terreno: le aree oscure dei cosiddetti Mari, e le regioni chiare, solitamente più elevate e molto più montuose. Queste regioni chiare sono punteggiate dagli innumerevoli crateri lunari e sembrano distrutte e sconvolte da millenni di furia vulcanica. I Mari, per contrasto, sono pianeggianti e relativamente lisci, con qualche cratere qua e là, molti pozzi e crepacci, ma in complesso molto più regolari delle zone montagnose.

Pare che questi Mari si siano formati molto più tardi delle catene di monti e dei crateri della ribollente gioventù lunare. Non si sa come, molto tempo dopo che le formazioni più antiche si erano rapprese, in alcune zone la crosta tornò a fondersi, formando quelle piane lisce e scure che sono i Mari. In essi si notano i resti di numerosi crateri e di monti che vennero fusi come cera, e le loro croste sono frangiate di picchi e dirupi.

Il problema che gli scienziati avevano tanto studiato e che il professor Phillips aveva risolto, era questo: perché il calore interno della Luna esplose solo nelle aree circoscritte dei Mari, lasciando intatte le antiche zone montuose?

Il calore interno di un pianeta è prodotto dalla radioattività. Per questo, al professor Phillips venne l’idea che sotto i grandi Mari dovessero esserci ricchi depositi di uranio e di altri elementi associati. L’innalzarsi e il ritirarsi delle maree nell’interno liquido della Luna avevano forse prodotto le concentrazioni locali, e il calore da esso prodotto in millenni di radioattività aveva fuso le formazioni esterne che si trovavano lontanissime al di sopra di esse. Così erano nati i Mari.

L’uomo aveva percorso per due secoli la superficie della Luna munito di tutti gli strumenti di misurazione possibili e immaginabili. Ne aveva sconvolto l’interno con terremoti artificiali da cui era risultata la presenza di campi magnetici ed elettrici. Grazie a queste osservazioni, il professor Phillips aveva potuto elaborare la sua teoria poggiandola su solide basi matematiche.

Vasti giacimenti di uranio si stendevano a grande profondità sotto i Mari. L’uranio in sé non aveva più l’importanza capitale che aveva avuto nei secoli XX e XXI, perché le antiche pile a fissione erano state da tempo sostituite dal reattore a idrogeno. Ma dove si trovava l’uranio si sarebbero trovati anche gli altri metalli pesanti.

Il professor Phillips era sicuro che la sua teoria non potesse avere applicazioni pratiche. Tutti quegli immensi depositi, si era affrettato a precisare, erano situati a tale profondità che non si poteva in alcun modo parlare di scavi minerari. Erano per lo meno a cento chilometri sotto la superficie lunare, e laggiù la pressione sulla roccia era tale che anche i metalli duri dovevano trovarsi allo stato liquido, perciò né fori né pozzi potevano venire aperti e restare efficienti anche un solo momento.

Davvero un peccato che, come aveva concluso il professor Phillips, quei tesori dovessero restare per sempre fuori della portata dell’uomo che ne aveva un così grande bisogno. Ma uno scienziato non sarebbe dovuto essere ingenuo, pensava Sadler. Un giorno o l’altro, il professor Phillips avrebbe avuto una bella sorpresa.

6

Sadler, sdraiato nel suo stanzino, cercava di ricordare gli eventi della settimana precedente. Non riusciva quasi a capacitarsi di essere arrivato dalla Terra solo otto giorni prima, ma l’orologio calendario appeso alla parete parlava chiaro.

Nel Mare Imbrium era mezzanotte, ma il paesaggio lunare abbagliava di luce. La Nova Draconis sfidava in lucentezza anche la Terra. Perfino Sadler, ai cui occhi gli avvenimenti astronomici erano troppo remoti e impersonali perché potessero emozionarlo, saliva di tanto in tanto a dare un’occhiata a quel nuovo invasore del cielo settentrionale. Stava forse osservando la pira funebre di mondi più vecchi e più saggi della Terra? Era davvero strano che un avvenimento così sensazionale si fosse verificato in un momento tanto delicato della storia dell’umanità. Naturalmente era solo una coincidenza. Bisognava essere non solo superstiziosi, ma anche molto egocentrici per immaginare che quell’avvenimento fosse stato inteso al solo scopo di ammonire la Terra.

Sadler pose un freno ai suoi pensieri e si concentrò sul lavoro. Che cosa gli restava ancora da fare? Aveva visitato ogni sezione dell’Osservatorio, fatto la conoscenza di chiunque valesse la pena conoscere, eccettuato il direttore. Al ritorno del principale, tutti lo avevano concordemente avvertito, la vita non sarebbe più stata così semplice e facile, e tutto avrebbe dovuto svolgersi secondo le regole. Sadler ci era abituato, ma non gli piaceva molto.

Sì udì un educato ronzio nell’altoparlante inserito entro la parete sopra il letto, e Sadler alzò un piede e fece scattare l’interruttore con la punta del sandalo. Ormai ci riusciva al primo colpo, ma alcune graffiature sulla parete erano un ricordo visibile dei suoi primi tentativi.

— Sì — rispose. — Chi e?

— Qui Sezione Trasporti. La lista per domani è già quasi completa. Ci sono ancora un paio di posti liberi. Devo segnare il vostro nome?

— Sì, se c’è posto — rispose Sadler. — Non voglio che altri rinuncino per causa mia.

— Va bene… vi metto in nota — ribatté pronta la voce, e la comunicazione fu tolta.

Sadler aveva pensato che dopo una settimana di lavoro intenso poteva ben concedersi qualche ora a Central City. Non era ancora venuto il momento di incontrare la persona con cui avrebbe dovuto mettersi in contatto, e finora i suoi rapporti erano partiti per posta, sotto una veste tale che anche se qualcuno li avesse letti non avrebbe sospettato niente. Ma era ormai venuta l’ora di fare un giro in città, e sarebbe parso strano se non si fosse preso quella vacanza. Tuttavia lo scopo principale del suo viaggio era strettamente privato. Desiderava impostare una lettera e sapeva che la posta dell’Osservatorio veniva sottoposta a censura da parte dei suoi colleghi del Central Intelligence.

Central City distava venti chilometri dallo spazioporto, e Sadler, al suo arrivo sulla Luna, non aveva visto niente della metropoli. Mentre il treno monorotaia, più pieno stavolta che non nel suo viaggio d’andata, attraversava il Sinus Medii, non si sentiva più proprio uno straniero. Conosceva per lo meno di vista quasi tutti gli occupanti della vettura, cioè metà del personale dell’Osservatorio. L’altra metà avrebbe preso le ferie la settimana seguente. Neppure alla Nova Draconis era concesso interferire nel solito andamento, basato sul buon senso e su solide cognizioni psicologiche.