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Eravamo al parco da una mezz’ora quando il suo telefono squillò. Lei lo tolse dalla borsa per la maglia, avvicinò il microfono all’orecchio. — Sì? — Poi aggiunse: — Grazie. Chiudo — e rimise via il telefono senza offrirsi di dirmi chi l’avesse chiamata. Un suo privilegio.

Comunque, me ne parlò indirettamente. — Dimmi, Marjie, hai mai rimpianti? O sensi di colpa?

— Sì, a volte. Perché, dovrei averli? Per cosa? — Frugai nel mio cervello, ma mi sembrava di avere fatto tutto il possibile per non irritare Anita.

— Per come ci hai ingannati, imbrogliati.

— Cosa?

— Non fare l’innocente. In passato non ho mai avuto a che fare con una creatura estranea alla legge di Dio. Non ero certa che tu potessi capire il concetto di peccato e colpa. Non che questo importi, immagino, adesso che ti sei smascherata. La famiglia chiede l’annullamento immediato del contratto. Oggi stesso Brian, vedrà il giudice Ridgley.

Mi tirai su sulla panchina. — E quale sarebbe l’accusa? Non ho fatto niente di sbagliato!

— Oh, lo hai fatto. Hai dimenticato che in base alle nostre leggi un non-umano non può contrarre un contratto di matrimonio con esseri umani.

8

Un’ora dopo prendevo lo shuttle per Auckland, e avevo il tempo di riflettere sulla mia follia.

Per quasi tre mesi, dalla sera in cui ne avevo discusso con Boss, per la prima volta mi ero sentita a mio agio nella condizione di "umano". Lui mi aveva detto che ero "umana quanto Madre Eva" e che potevo tranquillamente raccontare a chiunque di essere una Pa, perché non mi avrebbero creduto.

Più o meno, Boss aveva ragione. Ma non aveva previsto che io mi sforzassi di dimostrare con tutta me stessa di non essere "umana" secondo i canoni della legge ennezeta.

Il mio primo impulso era stato chiedere un’udienza davanti al consiglio di famiglia al completo; solo per scoprire che il mio caso era già stato discusso in camera e che ero stata sconfitta per sei voti contro zero.

Non tornai nemmeno a casa. La telefonata che Anita aveva ricevuto al giardino botanico l’aveva informata che i miei effetti personali erano stati chiusi in valigia e trasferiti al bagagliaio della stazione degli shuttle.

Avrei potuto insistere per una riunione di famiglia, invece di accettare la (dubbia) parola di Anita. Ma a che scopo? Per avere la meglio in una discussione? Per dimostrare un punto? O semplicemente per spaccare in due il capello? Mi occorsero cinque secondi interi per capire che il mio bene più caro e prezioso era svanito. Scomparso come un arcobaleno, scoppiato come una bolla di sapone. Non avevo più un posto "mio". Quei bambini non erano miei; non mi sarei più rotolata sul pavimento con loro.

Stavo pensando a quello, con un dolore senza lacrime, e per poco non mi sfuggì l’informazione che Anita era stata "generosa" con me. Nel contratto che avevo firmato con la famiglia, una clausola a caratteri minuscoli mi obbligava a saldare immediatamente la somma dovuta, nel caso avessi infranto il contratto. Il fatto di non essere umana significava infrangerlo? Anche se non avevo mai saltato una sola rata? Guardando la cosa da un certo punto di vista, essere scacciata dalla famiglia significava per me un risparmio di almeno diciottomila dollari ennezeta; guardandola da un altro punto di vista, non solo mi sarebbe stata confiscata per diritto legale la parte di quota che avevo già pagato, ma ero in debito con loro di più del doppio della stessa cifra.

Ma furono "generosi": se fossi scomparsa in fretta e senza creare problemi, non avrebbero preteso che saldassi il debito. Non mi spiegarono cosa sarebbe successo se fossi rimasta lì e avessi creato uno scandalo.

Scappai.

Non ho bisogno di uno psichiatra per capire che mi ero fatta del male con le mie stesse mani; lo capii non appena Anita mi annunciò le brutte notizie. Un interrogativo che scende più in profondità è: Perché lo avevo fatto?

Non per Ellen, e non potevo certo illudermi di averlo fatto per lei. Anzi, la mia follia mi aveva reso impossibile cercare di combinare qualcosa di buono per lei.

Perché lo avevo fatto?

Per rabbia.

Non sapevo trovare una risposta migliore. Rabbia con l’intera razza umana per aver deciso che quelli come me non sono umani e quindi non hanno diritto allo stesso trattamento e alla stessa giustizia. Un risentimento che era cresciuto dal giorno in cui mi avevano fatto capire che i bambini umani godono di certi privilegi per il semplice fatto di essere nati, e che io non potevo goderne solo perché non ero umana.

Fingersi umani dà diritto a godere di questi privilegi, ma non mette fine al risentimento per il sistema. La pressione cresce ancora di più perché non si può esprimere. E un certo giorno, per me fu più importante scoprire se la mia famiglia adottiva poteva accettarmi per ciò che realmente sono, una persona artificiale, che non tenere in vita un rapporto felice.

Ed ebbi la mia risposta. Nessuno di loro si schierò con me, come nessuno di loro si era schierato con Ellen. Penso di aver capito che mi avrebbero rifiutata quando seppi che avevano rifiutato Ellen.

Ma questo livello della mia mente è sepolto così in profondità che non lo conosco bene; è il luogo oscuro dove, stando a Boss, io penso sul serio.

Arrivai ad Auckland in ritardo per l’Sb giornaliero per Winnipeg. Dopo aver prenotato un posto per il volo del giorno dopo e aver depositato tutto tranne la sacca, mi chiesi che cosa fare nelle ventun ore che avevo davanti; e subito pensai al mio lupo riccioluto, il capitano Ian. Da quello che aveva detto, c’era una probabilità su cinque di trovarlo in città; ma il suo appartamento, se era libero, sarebbe stato più simpatico di un hotel. Così trovai un terminale pubblico e battei il suo codice.

Lo schermo si illuminò; apparve un viso femminile, giovane, allegro, piuttosto grazioso. — Ciao! Sono Torchy. Tu chi sei?

— Sono Marj Baldwin — risposi. — Forse ho sbagliato codice. Sto cercando il capitano Tormey.

— No, non hai sbagliato, tesoro. Resta in linea. Lo tiro fuori dalla gabbia. — Si girò e si allontanò dal ricevitore, strillando: — Ragazzo! Una pollastrella fantastica al telefono. Sa il tuo nome.

Mentre la donna si allontanava, intravvidi seni nudi. Quando fu al centro dello schermo scoprii che non aveva addosso un solo straccio.

Un bel corpo, forse un po’ largo alle fondamenta, ma con gambe lunghe, vita snella e mammelle all’altezza delle mie…

E delle mie non si è mai lamentato nessuno.

Bestemmiai fra me. Sapevo benissimo perché avevo chiamato il capitano: per dimenticare tre uomini fra le braccia di un quarto. Lo avevo trovato, ma pareva che fosse già occupato.

Ian apparve, vestito ma non troppo; portava un lava-lava. Un’aria perplessa, poi mi riconobbe. — Ehi! La signorina… Baldwin! Sì. Splendido. Dove sei?

— Al porto. Ho chiamato per salutarti, nel caso fossi in casa.

— Resta lì dove sei. Non muoverti, non respirare. Sette secondi per mettermi calzoni e camicia e vengo a prenderti.

— No, capitano. Solo un saluto. Aspetto una coincidenza, come l’altra volta.

— Che coincidenza? Per dove? Quando parti?

Accidenti e triplo accidenti. Non mi ero preparata le bugie. Be’, spesso è meglio la verità di una bugia maldestra. — Torno a Winnipeg.

— Ah! Allora hai davanti il tuo pilota. Il volo di domani a mezzogiorno è mio. Dimmi dove ti trovi esattamente e sono da te fra, diciamo, quaranta minuti, se trovo un taxi in fretta.

— Capitano, sei molto dolce e sei fuori di testa. Hai già tutta la compagnia che ti può servire. La ragazza che ha risposto al telefono. Torchy.