Robert A. Heinlein
Operazione Domani
1
Quando scesi dalla capsula Piantadifagiolo Kenia, lo avevo alle calcagna. Mi seguì oltre la porta degli uffici Dogana, Sanità e Immigrazione. Mentre la porta si contraeva alle sue spalle, lo uccisi.
La Piantadifagiolo non mi è mai piaciuta. Mi disgustava già prima del disastro del Ganciaereo di Quito. Un cavo che si alza in cielo senza niente che lo sostenga puzza troppo di magia. Ma l’unico altro mezzo per raggiungere Elle-Cinque richiede troppo tempo e costa troppo; i miei ordini e la mia nota-spese non me lo permettevano.
Così ero già nervosa prima di lasciare lo shuttle da Elle-Cinque a Stazione Stazionaria e salire sulla capsula della Piantadifagiolo… Però, accidenti, il nervosismo non è un buon motivo per uccidere qualcuno. Volevo solo metterlo fuori combattimento per qualche ora.
Il subconscio ha la sua logica. Lo afferrai al volo prima che piombasse a terra e lo trascinai verso una fila di armadietti di sicurezza a prova di bomba, in tutta fretta per non macchiare il pavimento; premetti il suo pollice contro la serratura lo infilai dentro, gli presi il borsello; trovai la tessera del Diners Club, la inserii nella fessura per il pagamento, recuperai i documenti e contanti; e gettai dentro il borsello assieme al cadavere, mentre la saracinesca si abbassava e chiudeva. Poi mi girai.
Un Occhio Pubblico fluttuava sopra e dietro di me.
Inutile restare col cuore in gola. Nove volte su dieci, un Occhio svolazza a caso, senza qualcuno che lo segua su un monitor; e le sue dodici ore di registrazione possono essere o non essere controllate da un umano prima di venire cancellate. La decima volta… Un agente di pace può seguire tutto sul monitor; oppure può stare lì a grattarsi la pancia e a pensare a quello che ha fatto la notte prima.
Così lo ignorai e proseguii verso l’uscita del corridoio. Quell’Occhio scocciante avrebbe dovuto seguirmi, visto che nell’area ero l’unica massa a irradiare una temperatura di trentasette gradi. Invece, prima di puntarsi di nuovo su di me, esitò per lo meno tre secondi; restò a controllare l’armadietto.
Stavo cercando di stimare quale, fra le tre possibili tattiche, fosse la più sicura, quando la parte ribelle del mio cervello prese il sopravvento e le mie mani ne eseguirono una quarta. La penna che avevo in tasca diventò un raggio laser e «uccise» l’Occhio Pubblico; lo assassinò mentre io tenevo il raggio sulla massima potenza finché l’Occhio precipitò a terra, accecato e con l’antigravità fuori uso. E la memoria cancellata, speravo.
Usai un’altra volta la carta di credito del tizio che mi aveva seguita. Lavorai sulla serratura dell’armadietto con la mia penna, per non disturbare l’impronta del suo pollice. Ci volle un bel calcione dello stivale per infilare l’Occhio in quello spazio sovraffollato. Poi mi spicciai: era tempo di diventare qualcun altro. Come quasi tutti i porti d’ingresso, il Piantadifagiolo Kenia offre ai viaggiatori amenità varie su un lato e sull’altro della barriera. Anziché sottopormi alle ispezioni, trovai le toilette e pagai in contanti per una stanza da bagno con spogliatoio.
Ventisette minuti più tardi non solo mi ero lavata ma avevo anche acquistato capelli diversi, abiti diversi, un’altra faccia: quello che richiede tre ore per l’applicazione scompare in quindici minuti con sapone e acqua calda. Non ero ansiosa di mostrare il mio vero viso, ma dovevo liberarmi della persona che avevo usato in quella missione. Le parti che non erano scese nel lavandino finirono nel tritarifiuti: tuta, stivali, borsa, impronte digitali, lenti a contatto, passaporto. Il passaporto che avevo adesso riportava il mio vero nome (be’, uno dei miei nomi), una stereografia del mio viso nudo, ed era contrassegnato da una stampigliatura molto autentica di Elle-Cinque.
Prima di distruggere gli effetti personali che avevo rubato al cadavere, li guardai, e mi bloccai.
Le sue carte di credito e i documenti indicavano quattro identità.
Dov’erano gli altri tre passaporti?
Probabilmente nascosti da qualche parte su quella carne morta. Non lo avevo perquisito a dovere (non ne avevo avuto il tempo!), mi ero limitata ad arraffare quello che teneva nel borsello.
Tornare a guardare? Se mi fossi messa ad andare avanti e indietro e ad aprire in continuazione un armadietto con un cadavere ancora caldo, prima o poi qualcuno se ne sarebbe accorto. Prendendogli le carte di credito e il passaporto avevo sperato di rimandare l’identificazione del corpo, e quindi di avere più tempo per sparire, però… Un momento. Mmm, sì, passaporto e tessera del Diners Club erano tutti e due intestati ad «Adolf Belsen». L’American Express concedeva credito ad «Albert Beaumont», e la Banca di Hong Kong provvedeva alle necessità di «Arthur Bookman», mentre la MasterCard pensava ad «Archibald Buchanan».
«Ricostruii» il delitto: Beaumont-Bookman-Buchanan aveva appena aperto col pollice la serratura dell’armadietto quando Belsen lo aveva colpito alle spalle, infilato dentro, usato la tessera del Diners Club per pagare; dopo di che, era scappato.
Sì, una teoria eccellente… E adesso bisognava intorbidire un po’ di più le acque.
Carte d’identità e carte di credito finirono automaticamente nel mio portafoglio; il passaporto di «Belsen» lo nascosi sulla mia persona. Non avrei potuto superare una perquisizione cutanea, però esistono modi per evitare queste perquisizioni; modi che comprendono (ma non si limitano a) bustarelle, ascendente personale, corruzione, indicazioni errate, e imbrogli belli e buoni.
Quando uscii dalla toilette, i passeggeri della capsula successiva erano scesi e si stavano mettendo in fila davanti a Dogana, Sanità e Immigrazione. Mi unii alla coda. L’agente della Dsi commentò che la mia sacca era molto leggera e mi chiese come andava il mercato nero degli eccitanti. Gli risposi con la mia espressione più stupida, quella che c’è sulla foto del passaporto. All’incirca in quel momento lui trovò il giusto gruzzolo infilato nel mio passaporto e lasciò cadere l’argomento.
Gli chiesi il miglior hotel e il miglior ristorante. Lui disse che non era tenuto a raccomandare nessuno, ma che aveva un’ottima opinione del Nairobi Hilton. In quanto al cibo, se potevo permettermelo, il Fat Man, di fronte all’Hilton, era il posto dove si mangiava meglio in tutta l’Africa. Sperava che mi sarei goduta la permanenza in Kenia.
Lo ringraziai. Pochi minuti dopo avevo lasciato la montagna ed ero scesa in città, e c’era poco da stare allegri. Stazione Kenia è a più di cinque chilometri d’altitudine; l’aria è sempre rarefatta e fresca. Nairobi è a un’altitudine maggiore di Denver, quasi la stessa di Ciudad de México; però si tratta solo di una frazione dell’altitudine di Monte Kenia, e siamo a due passi dall’equatore.
L’aria era densa e troppo calda da respirare; i miei abiti si inzupparono quasi immediatamente di sudore; i miei piedi cominciarono a gonfiarsi, e poi soffrivano già per la gravità piena. Non mi piacciono gli incarichi al di fuori della Terra, ma il rientro è sempre la parte peggiore.
Chiamai in causa l’addestramento al controllo mentale per non avvertire i disagi. Buffonate. Se il mio istruttore di controllo mentale avesse trascorso un po’ meno tempo accoccolato nella posizione del loto e un po’ di più in Kenia, le sue istruzioni mi sarebbero state più utili. Lasciai perdere e mi concentrai sul problema: come uscire in fretta da quella sauna.
L’atrio dell’Hilton era gradevolmente fresco. Ancora meglio, aveva un bureau viaggi completamente automatizzato. Entrai, trovai una cabina vuota, sedetti al terminale. L’inserviente si materializzò all’istante. — Posso esservi utile?
Le dissi che pensavo di potermela cavare. La tastiera pareva familiare (era un comunissimo Kensington 400).
Quella insistette: — Sarei lieta di fare io per voi. Non ho clienti che aspettano. — Doveva avere sui sedici anni: viso dolce, voce gradevole, modi che mi convinsero che rendersi utile le piaceva sul serio.