Per la calda consapevolezza che, ovunque mi trovassi, esisteva sempre un posto al mondo dove avevo il diritto di fare quelle cose, perché appartenevo a quel posto.
A me sembrava un ottimo affare.
Non appena lo shuttle si alzò in volo, telefonai, beccai Vickie; e quando lei smise di strillare, le comunicai l’ora d’arrivo. Avevo intenzione di chiamare dall’atrio della Kiwi Lines, nel porto di Auckland, ma il mio lupo riccioluto, il capitano Ian si era divorato il mio tempo. Faceva lo stesso. Lo shuttle vola quasi alla velocità del suono, ma una sosta a Wellington e una sosta a Nelson richiedono parecchio, per cui qualcuno sarebbe riuscito a venirmi a prendere. Così speravo.
Vennero tutti a prendermi. Be’, non proprio tutti. Noi abbiamo il permesso di tenere un Vma perché alleviamo pecore e bovini e ci occorre un veicolo a motore. Però non potremmo usarlo in città. Brian se ne infischiò, e una mandria della nostra grande famiglia uscì dalle portiere del carro antiG della nostra fattoria.
Era passato quasi un anno dalla mia ultima visita lì, più del doppio di ogni periodo precedente. Molto male. In un intervallo del genere, i bambini possono crescere e diventare estranei. Feci un’attenzione estrema ai nomi, li controllai uno per uno mentalmente. Tutti presenti tranne Ellen, che non era certo una bambina: aveva undici anni quando il gruppo mi aveva sposata e adesso era una giovane signora che frequentava l’università. Anita e Lispeth erano rimaste a casa, a preparare in fretta e furia la festa di benvenuto… E di nuovo mi avrebbero dolcemente rimproverata per non aver avvertito prima e di nuovo io avrei cercato di spiegare che nel mio lavoro, non appena si presentava un’occasione di ferie, era meglio prendere il primo Sb disponibile che cercare di telefonare. Per caso dovevo fissare un appuntamento per tornare a casa mia?
Poco dopo ero rovesciata sul pavimento, circondata da bambini. Signor Sottoipiedi, giovane e arzillo il giorno che lo avevo conosciuto, aspettò il momento buono per salutarmi con la dignità che si confaceva al suo status di gatto anziano, grasso e lento. Mi scrutò con cura, si strusciò contro di me, e cominciò a ronfare. Ero a casa.
Dopo un po’ chiesi: — Dov’è Ellen? Ancora ad Auckland? Credevo che l’università fosse chiusa per le vacanze. — Lo dissi guardando Anita in faccia, ma lei parve non sentirmi. Stava diventando dura d’orecchi? No, impossibile.
— Marjie… — La voce di Brian. Mi guardai attorno: non parlava, e il suo viso era privo di espressione. Si limitò a scuotere leggermente la testa.
(Ellen un argomento tabù? Che storia c’è sotto, Brian? Rimandai la cosa al momento in cui avrei potuto parlargli in privato, Anita ha sempre sostenuto di amare nello stesso modo tutti i nostri bambini, siano o meno figli suoi. Oh, sicuro! A parte il fatto che il suo interesse particolare per Ellen è sempre stato chiaro a chiunque le viva accanto.)
Quella sera, più tardi, mentre la casa si preparava al sonno e Bertie e io stavamo per andare a letto (grazie alla Lotteria inventata dai nostri scherzosi tesorucci: chi perde deve passare la notte con me), Brian, bussò alla porta ed entrò.
Bertie disse: — Tutto a posto. Puoi andartene. Sopporterò la punizione.
— Piantala, Bert. Hai parlato di Ellen a Marj?
— Non ancora.
— Allora informala. Amore, Ellen si è sposata senza la benedizione di Anita, e Anita è furibonda. Quindi è meglio non parlare di Ellen se c’è in giro Anita. Un po’ di politica, eh? Adesso devo scappare prima che si accorga che non ci sono.
— Non ti è permesso venirmi a dare il bacio della buonanotte? O fermarti qui, se vuoi? Non sei anche mio marito?
— Sì, certo amore. Ma in questo periodo Anita è al massimo del nervosismo, ed è inutile irritarla ancora di più.
Brian ci diede il bacio della buonanotte e uscì. Io dissi: — Cos’è questa faccenda, Bertie? Perché mai Ellen non dovrebbe sposare chi vuole sposare? Ormai ha l’età per decidere da sola.
— Be’, sì. Ma in questo caso non ha avuto la mano felice. Ha sposato un tongano ed è andata a vivere a Nukualofa.
— Anita pensa che dovrebbe vivere qui? A Christchurch?
— Eh? No, no! È il matrimonio che non le va.
— Quest’uomo ha dei difetti particolari?
— Marjorie, non mi hai sentito? È un tongano.
— Sì, ho sentito. Se vive a Nukualofa, è logico che lo sia. Ellen soffrirà un caldo del diavolo, dopo essere cresciuta in uno dei pochi climi perfetti. Ma è un problema suo. Continuo a non vedere perché Anita sia sconvolta. Deve esserci sotto qualcosa che non so.
— No, lo sai! Cioè, forse no. I tongani non sono come noi. Non sono bianchi. Sono barbari.
— Oh, no! — Mi rizzai a sedere sul letto, mettendo fine a qualcosa che non era iniziato. Sesso e discussioni non vanno d’accordo. Non per me, comunque. — Sono il popolo più civile di tutta la Polinesia. Secondo te, perché mai i primi esploratori avrebbero battezzato l’arcipelago Isole degli Amici? Ci sei mai stato, Bertie?
— No, però…
— Io sì. A parte il caldo, è un posto paradisiaco. Vedrai. Quest’uomo… Cosa fa? Se se ne sta a scolpire mogano per i turisti potrei capire l’irritazione di Anita. È così?
— No. Ma dubito che possa permettersi una moglie. Ed Ellen non può permettersi un marito. Non si è laureata. Lui è un biologo marino.
— Vedo. Non è ricco… e Anita rispetta i soldi. Però non sarà nemmeno povero. Probabilmente finirà professore a Sydney o Auckland. Per quanto, al giorno d’oggi un biologo potrebbe anche diventare ricco. Potrebbe ideare una nuova pianta o un nuovo animale che lo rendano favolosamente ricco.
— Amore, continui a non capire.
— Infatti. Allora spiegami.
— Be’… Ellen avrebbe dovuto sposare qualcuno della sua stessa razza.
— Questo cosa significa, Albert? Qualcuno che viva a Christchurch?
— Sarebbe meglio.
— Ricco?
— Non è indispensabile. Anche se in genere le cose vanno più lisce quando i soldi non arrivano da una sola parte. Il ragazzo da spiaggia polinesiano che sposa un’ereditiera bianca puzza sempre.
— Ah, ah! Lui è senza un soldo e lei ha appena ricevuto la sua quota di famiglia, giusto?
— No, non esattamente. Accidenti a lei, non poteva sposare un bianco? Non l’abbiamo allevata per una fine del genere.
— Bertie, ma che diavolo hai? Mi sembri un danese che parla di uno svedese. Credevo che la Nuova Zelanda fosse libera da idee simili. Brian, lo ricordo benissimo, una volta mi ha fatto notare che i maori sono pari agli inglesi a livello politico e sociale da ogni punto di vista.
— E lo sono. Non è la stessa cosa.
— Si vede che sarò stupida. — (Oppure era stupido Bertie? I maori sono polinesiani, come i tongani; dove sta il problema?)
Lasciai cadere l’argomento. Non mi ero fatta tutta la strada da Winnipeg per discutere i meriti di un genero mai visto. «Genero…» che strana idea. Mi aveva sempre deliziato sentirmi chiamare mamma, invece di Marjie, da uno dei piccoli; ma non mi era mai passata per la testa l’idea di poter avere un genero.
Eppure, per la legge ennezeta, era davvero mio genero; e io non sapevo nemmeno come si chiamasse!
Mi calmai, cercai di svuotare la mente, mentre Bertie si industriava a darmi il benvenuto. È bravo, in quello.