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— Oh. Brian, una volta mi hai detto che ti eri quasi laureato in biologia, prima di passare a legge.

— Sì. Ma forse quasi è un po’ troppo.

— Allora sai che una persona artificiale è biologicamente identica a un normale essere umano. La mancanza dell’anima non risulta dai test.

— Eh? Io sono solo un parrocchiano, amore. L’anima è una questione che riguarda i teologi. Ma senz’altro non è difficile individuare una creatura sintetica.

— Non ho parlato di creature sintetiche. In questa definizione sono compresi anche i cani parlanti come Lord Nelson. Le persone artificiali sono strettamente limitate a forma e aspetto umani. Quindi, come puoi individuarle? Era questa la stupidaggine che Vickie diceva. Sosteneva di poterle sempre individuare. Prendi me, per esempio. Brian, tu conosci il mio corpo in modo piuttosto completo, e sono lieta di dirlo. Sono un normale essere umano? O una persona artificiale?

Brian sorrise e si leccò le labbra. — Mia deliziosa Marjie, sono pronto a testimoniare davanti a qualunque tribunale che tu sei umana al novanta per cento… a parte i punti dove sei angelica. Devo specificare?

— Conoscendo i tuoi gusti, tesoro, non credo sia necessano. Grazie. Ma cerca di essere serio. Presumi, per amore di discussione, che io sia una persona artificiale. Un uomo che venga a letto con me, come tu hai fatto stanotte e molte altre notti, da cosa potrebbe capire che sono artificiale?

— Marjie, smettila. Non è divertente.

(A volte gli umani mi esasperano oltre i limiti di sopportazione.)

Dissi bruscamente: — Sono una persona artificiale.

— Marjorie!

— Non ti basta la mia parola? Te lo devo dimostrare?

— Piantala di scherzare. Piantala immediatamente! Se no, il cielo mi aiuti, appena torniamo a casa ti sculaccio. Marjorie, non ho mai picchiato né te né un’altra delle mie mogli. Ma tu cominci a meritare una bella lezione.

— Davvero? Lo vedi quell’ultimo pezzetto di torta sul tuo piatto? Adesso lo prendo. Metti le mani sopra il piatto e cerca di fermarmi.

— Non fare la stupida.

— Provaci. Non sarai mai tanto veloce da fermarmi.

I nostri sguardi si incontrarono. Di colpo, lui cominciò a stringere le mani. Io entrai automaticamente in overdrive, presi la forchetta, la infilai nel pezzo di torta, alzai la forchetta in mezzo alle sue mani che si chiudevano, interruppi l’overdrive appena prima di portarmi il boccone alle labbra.

(Quel cucchiaio di plastica del laboratorio non era una discriminazione. Serviva a proteggermi. La prima volta che usai una forchetta mi sforacchiai il labbro perché non avevo ancora imparato a rallentare i miei movimenti al ritmo delle persone normali.)

Forse non esiste un termine per l’espressione sul viso di Brian.

— Ti basta? — gli chiesi. — No, probabilmente no. Amore mio, dammi la mano. — Gli tesi la destra.

Lui esitò, poi la prese. Lasciai che aggiustasse la stretta, poi cominciai, lentamente, a fare forza. — Non voglio farti male, amore — lo avvertii. — Dimmi quando devo fermarmi.

Brian non è una femminuccia; sa sopportare il dolore. Stavo per fermarmi, perché non volevo rompergli qualche osso della mano, quando lui disse all’improvviso: — Basta!

Gli lasciai andare immediatamente la mano e presi a massaggiarla con tutte e due le mie. — Farti del male non mi ha divertita, amore, ma dovevo dimostrarti che dico la verità. In genere sto attenta a non mostrare riflessi insoliti o una forza insolita. Però ne ho bisogno per il mio lavoro. La forza e la velocità super mi hanno salvato la pelle diverse volte. Sto particolarmente attenta a non usare nessuna delle due cose se non ci sono costretta. Devo darti qualche altra dimostrazione per provarti che sono quello che dico? Ho anche altre capacità particolari, ma forza e velocità sono le più facili da dimostrare.

Lui rispose: — È ora di ripartire verso casa.

Nel viaggio di ritorno non scambiammo dieci parole. Adoro il lusso delle carrozze trainate dai cavalli, ma quel giorno sarei stata felicissima di servirmi di un mezzo rumoroso e meccanico; e veloce!

Nei giorni successivi, Brian mi evitò. Lo vidi solo a tavola. Un bel mattino, Anita mi disse: — Marjorie, tesoro, devo andare in città per qualche commissione. Vuoi venire a darmi una mano? — Ovviamente risposi di sì.

Fece diverse fermate dalle parti di Gloucester Street e Durham. Il mio aiuto non le occorreva per niente. Conclusi che aveva solo bisogno di compagnia, e ne fui compiaciuta. Anita è una persona meravigliosa, se non le pesti i piedi.

Terminate le commissioni, andammo a passeggiare in Cambridge Terrace, lungo le rive dell’Avon; poi a Hagley Park, nel giardino botanico. Lei scelse un posto al sole da dove potevamo guardare gli uccelli e tirò fuori il lavoro a maglia. Parlammo di niente in particolare per un po’, restando lì sedute.

Eravamo al parco da una mezz’ora quando il suo telefono squillò. Lei lo tolse dalla borsa per la maglia, avvicinò il microfono all’orecchio. — Sì? — Poi aggiunse: — Grazie. Chiudo — e rimise via il telefono senza offrirsi di dirmi chi l’avesse chiamata. Un suo privilegio.

Comunque, me ne parlò indirettamente. — Dimmi, Marjie, hai mai rimpianti? O sensi di colpa?

— Sì, a volte. Perché, dovrei averli? Per cosa? — Frugai nel mio cervello, ma mi sembrava di avere fatto tutto il possibile per non irritare Anita.

— Per come ci hai ingannati, imbrogliati.

— Cosa?

— Non fare l’innocente. In passato non ho mai avuto a che fare con una creatura estranea alla legge di Dio. Non ero certa che tu potessi capire il concetto di peccato e colpa. Non che questo importi, immagino, adesso che ti sei smascherata. La famiglia chiede l’annullamento immediato del contratto. Oggi stesso Brian, vedrà il giudice Ridgley.

Mi tirai su sulla panchina. — E quale sarebbe l’accusa? Non ho fatto niente di sbagliato!

— Oh, lo hai fatto. Hai dimenticato che in base alle nostre leggi un non-umano non può contrarre un contratto di matrimonio con esseri umani.

8

Un’ora dopo prendevo lo shuttle per Auckland, e avevo il tempo di riflettere sulla mia follia.

Per quasi tre mesi, dalla sera in cui ne avevo discusso con Boss, per la prima volta mi ero sentita a mio agio nella condizione di «umano». Lui mi aveva detto che ero «umana quanto Madre Eva» e che potevo tranquillamente raccontare a chiunque di essere una Pa, perché non mi avrebbero creduto.

Più o meno, Boss aveva ragione. Ma non aveva previsto che io mi sforzassi di dimostrare con tutta me stessa di non essere «umana» secondo i canoni della legge ennezeta.

Il mio primo impulso era stato chiedere un’udienza davanti al consiglio di famiglia al completo; solo per scoprire che il mio caso era già stato discusso in camera e che ero stata sconfitta per sei voti contro zero.

Non tornai nemmeno a casa. La telefonata che Anita aveva ricevuto al giardino botanico l’aveva informata che i miei effetti personali erano stati chiusi in valigia e trasferiti al bagagliaio della stazione degli shuttle.

Avrei potuto insistere per una riunione di famiglia, invece di accettare la (dubbia) parola di Anita. Ma a che scopo? Per avere la meglio in una discussione? Per dimostrare un punto? O semplicemente per spaccare in due il capello? Mi occorsero cinque secondi interi per capire che il mio bene più caro e prezioso era svanito. Scomparso come un arcobaleno, scoppiato come una bolla di sapone. Non avevo più un posto «mio». Quei bambini non erano miei; non mi sarei più rotolata sul pavimento con loro.

Stavo pensando a quello, con un dolore senza lacrime, e per poco non mi sfuggì l’informazione che Anita era stata «generosa» con me. Nel contratto che avevo firmato con la famiglia, una clausola a caratteri minuscoli mi obbligava a saldare immediatamente la somma dovuta, nel caso avessi infranto il contratto. Il fatto di non essere umana significava infrangerlo? Anche se non avevo mai saltato una sola rata? Guardando la cosa da un certo punto di vista, essere scacciata dalla famiglia significava per me un risparmio di almeno diciottomila dollari ennezeta; guardandola da un altro punto di vista, non solo mi sarebbe stata confiscata per diritto legale la parte di quota che avevo già pagato, ma ero in debito con loro di più del doppio della stessa cifra.