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Non entrammo nella città di Winnipeg. La loro casa si trovava a sud-ovest di una cittadina, Stonewall, a nord della città, nelle vicinanze del porto.

Quando arrivammo era già buio, ma vidi bene una cosa: quella villa di campagna era in grado di resistere a qualunque attacco, a parte l’assedio di un esercito professionale. C’erano tre cancelli in fila, col cancello uno e due che facevano da recinto chiuso.

Non vidi Occhi o armi comandate a distanza, ma ero sicurissima che ci fossero. La villa si stagliava nei raggi rossi e bianchi che avvertono i vascelli aerei di non provarci.

Intravvidi solo vagamente le altre difese che completavano i cancelli. Troppo buio. Vidi un muro e due recinti, ma non mi fu chiaro se fossero dotati di armi e/o ordigni esplosivi, ed esitavo a chiedere. Comunque, nessuna persona normale spende così tanto per proteggere la casa per poi affidarsi solo a difese passive. Avrei voluto chiedere anche degli Shipstone, visto che alla fattoria Boss aveva perso lo Shipstone principale (sabotato da «zio Jim») e con esso tutte le sue difese; ma, di nuovo, non era la domanda più adatta per un ospite.

Ancora di più mi chiesi cosa sarebbe successo se ci avessero assaliti prima di superare i cancelli del loro castello. Ma anche lì, col florido commercio di armi illegali che finiscono in mano a gente in teoria disarmata, era una domanda da non fare. Io di solito vado in giro disarmata, ma non credo lo facciano anche gli altri; la maggioranza della gente non possiede né le mie capacità super né il mio addestramento speciale.

(Preferisco affidarmi al mio stato di «disarmata» che dipendere da congegni che ti possono essere sottratti a qualunque punto di controllo, o che puoi perdere, o che possono restare senza munizioni, o incepparsi, o essere scarichi quando servirebbero. Io non sembro armata, e questo mi dà un vantaggio. Ma altra gente, altri problemi; io sono un caso speciale.)

Percorremmo un sentiero in salita, passammo sotto una tettoia e ci fermammo, e Ian suonò di nuovo la sua stupida tromba, ma questa volta con uno scopo preciso; le porte d’ingresso si aprirono. Ian disse: — Portala dentro, amore. Io vado a dare una mano a Georges coi cavalli.

— Non mi serve aiuto.

— Stai calmo. — Ian saltò giù e ci fece scendere, diede la mia sacca a sua moglie, e Georges ripartì. Ian semplicemente lo seguì a piedi. Janet mi accompagnò dentro, e io restai a bocca aperta.

Dall’atrio vedevo una fontana luminosa programmata; cambiò forme e colori sotto i miei occhi. In sottofondo c’era una musica dolce che (forse) controllava la fontana.

— Janet… Chi è il vostro architetto?

— Ti piace?

— Naturalmente!

— Allora lo ammetto. L’architetto sono io, Ian è il tecnico, Georges ha supervisionato gli interni. È un artista multiforme. Un’altra ala della casa è il suo studio. E tanto vale ti dica subito che Betty mi ha ordinato di nascondere i tuoi vestiti finché Georges non avrà dipinto almeno un tuo nudo.

— Betty ha detto questo? Ma io non ho mai fatto la modella, e devo tornare al mio lavoro.

— Tocca a noi farti cambiare idea. A meno che… Ti vergogni? A Betty non sembrava probabile. Georges potrebbe accontentarsi di un ritratto vestito. Per cominciare.

— No, non mi vergogno. Be’, forse un po’ per l’idea di posare. È una novità. Senti, non si può aspettare? Al momento mi interessa di più andare al gabinetto che posare. Non vedo una toilette da che ho lasciato l’appartamento di Betty. Dovevo pensarci al porto.

— Scusa, tesoro. Non avrei dovuto tenerti qui a parlare dei dipinti di Georges. Mia madre mi ha insegnato anni fa che la prima cosa da fare per un ospite è mostrargli il bagno.

— Mia madre mi ha insegnato la stessa identica cosa — mentii.

— Per di qui. — Alla sinistra della fontana si apriva un corridoio; Janet mi ci guidò fino a una stanza. — La tua camera — annunciò, buttando la mia sacca sul letto — e il bagno è da quella parte. Lo dividerai con me. La mia stanza è il riflesso speculare di questa, sull’altro lato.

C’era un’enormità di spazio da dividere: tre cubicoli, ognuno con wc, bidet, e lavandino; una doccia grande abbastanza per un comitato politico, con comandi su cui avrei dovuto chiedere informazioni; un tavolo per il massaggio e l’abbronzatura; una piscina (o era solo una vasca da bagno?) chiaramente progettata per sguazzare in compagnia; due mobiletti per il trucco con lavandino; un terminale; un frigorifero; una libreria con uno scaffale riservato alle cassette.

— Nessun leopardo? — chiesi.

— Te lo aspettavi?

— Tutte le volte che ho visto questa stanza nei sensifilm l’eroina aveva un leopardo addomesticato.

— Ah. Ti accontenti di un micio?

— Certo. Tu e Ian siete gente da gatti?

— Non proverei mai a mettere su casa senza un gatto. Anzi, in questo momento potrei farti un’offerta d’oro, se ti piacciono i micini.

— Mi piacerebbe tenerne uno, ma non posso.

— Ne discuteremo più tardi. Adesso accomodati. Vuoi fare la doccia prima di cena? Io ho intenzione di farne una. Ho perso troppo tempo a strigliare Black Beauty e Demon prima di partire per il porto, e non ne ho avuto il tempo. Ti sei accorta che puzzo di stalla?

Ed è così che, a piccoli passi, dieci o dodici minuti dopo mi trovai con Georges che mi lavava il retro mentre Ian mi lavava il davanti e la padrona di casa si lavava da sola e rideva e offriva consigli che vennero ignorati. Se entrassi nei particolari, vedreste che ogni passo fu perfettamente logico e che quei gentili sibariti non fecero nulla per mettermi fretta. E non ci fu il minimo tentativo di sedurmi, né il più piccolo accenno al fatto che io avessi già violentato (di una violenza simbolica, se non altro) il padrone di casa la notte prima.

Poi divisi con loro un festino sibaritico nel loro soggiorno (o salotto, o salone, come volete) davanti a un fuoco che era in realtà uno degli aggeggi di Ian. Indossavo un négligé di Janet; il concetto di Janet di un négligé adatto a una cena l’avrebbe fatta finire in galera, a Christchurch.

Ma non provocò avance da parte dei due uomini. Arrivati al caffè e al brandy, io ero un tantino alticcia per i drink prima di cena e il vino a cena. Dietro richiesta, mi tolsi il négligé preso a prestito e Georges mi mise in cinque o sei pose diverse, prese stereo e olo della sottoscritta in ogni posa, discutendo di me come se fossi un quarto di manzo. Continuai a insistere che dovevo ripartire il mattino dopo, ma le mie proteste diventarono deboli e formali; Georges non vi prestò la minima attenzione. Disse che avevo «belle masse»: forse era un complimento, di certo non era un’avance.

Però scattò immagini meravigliose della sottoscritta, specialmente una in cui me ne stavo sdraiata su un divanetto con cinque micini che mi passeggiavano su petto e gambe e pancia. Chiesi se potevo averla, e saltò fuori che Georges possedeva l’attrezzatura per fare copie.

Poi Georges ne scattò un po’ a me e a Janet assieme, e di nuovo io chiesi la copia di una foto perché facevamo un bel contrasto e Georges era capace di farci apparire meglio di ciò che eravamo. Poi cominciai a sbadigliare e Janet disse a Georges di smetterla. Io presentai le mie scuse, dicendo che avere sonno era del tutto imperdonabile, visto che nel fuso orario da cui ero partita quel giorno erano le prime ore della sera.

Janet espresse sdegno. Secondo lei, avere sonno non c’entrava niente con gli orologi e i fusi orari: signori, si va a letto. Mi portò via.

Ci fermammo in quel bagno meraviglioso e lei mi circondò con le braccia. — Marjie, vuoi compagnia o vuoi dormire sola? So da Betty che hai avuto una notte movimentata. Forse preferiresti una notte di pace da sola. O forse no. Dillo tu.

Le risposi sinceramente che non sceglievo mai di dormire da sola.

— Nemmeno io — ammise lei — ed è bello sentirtelo dire, senza girarci attorno e fare la commedia come certi bacchettoni. Chi vuoi nel tuo letto?