Pete e io ce ne stavamo acquattati in un angolo quasi buio, fra la parte più alta del generatore e qualcosa chiuso in una grossa cassa. Le luci cambiarono, e udimmo il mormorio di molte voci. — Arrivano — sussurrò Pete. — Ricorda, scegli qualcuno che sia impacciato da troppa roba. Ce ne saranno parecchi. I nostri vestiti vanno bene. Non sembriamo di prima classe. Però dobbiamo avere qualcosa in mano. Gli emigranti sono sempre carichi. Mi è stato assicurato.
— Cercherò di prendere il figlio a qualche donna — dissi io.
— Perfetto, se ce la fai. Zitta, eccoli qui.
Erano davvero carichi di roba, per colpa di quella che mi sembra una politica pidocchiosa delle compagnie di linea. Un emigrante può portare con sé tutto quello che riesce a infilare nei ripostigli per scope che in terza classe chiamano cabine, purché riesca a portarlo giù dalla nave senza essere aiutato da qualcuno; è questa la definizione di «bagaglio a mano». Ma se deve mettere qualcosa nella stiva, paga la tariffa merci. So che la compagnia deve avere il suo guadagno, ma non è detto che politiche del genere debbano piacermi. In ogni caso, quel giorno avremmo cercato di volgere a nostro vantaggio la pidocchieria.
Quando ci passarono davanti, quasi nessuno guardò dalla nostra parte, e i pochi non dimostrarono alcun interesse. Apparivano stanchi e preoccupati, e probabilmente lo erano. C’erano un sacco di bambini, e quasi tutti piangevano. Le prime venti o trenta persone della colonna ci superarono in fretta. Poi la fila rallentò (più bambini, più bagagli) e i ranghi si serrarono. Era arrivata l’ora di fingere di essere una delle «pecore».
Poi, di colpo, in quel caos di odori umani, di sudore e sporcizia e preoccupazioni e paura e muschio e pannolini bagnati, un odore si stagliò chiaro come il tema del Galletto d’Oro nell’Inno al sole di Rimsky-Korsakov, o come un leitmotif wagneriano nel Ciclo dell’Anello; e io strillai: — Janet!
Una donna pesante, sul lato opposto della fila, si girò a guardarmi, e lasciò cadere due valigie e mi strinse. — Marjie! — E un uomo con la barba stava dicendo: — Ve lo avevo detto che era a bordo! Ve lo avevo detto! — E Ian accusava: — Sei morta! — e io staccai la bocca da quella di Janet il tempo sufficiente per dire: — No, non sono morta. Il secondo pilota Pamela Heresford ti invia i suoi più calorosi saluti.
Janet disse: — Quella puttana! — Ian disse: — Su, Jan — e Betty mi scrutò con cura e disse: — È lei. Ciao, amore! Che bella sorpresa! Parola mia! — e in sottofondo Georges balbettava frasi incoerenti in francese e intanto cercava di staccarmi da Janet.
Ovviamente avevamo interrotto l’avanzata della coda. Altre persone, cariche di roba, lamentandosi, ci superarono, ci attraversarono, ci aggirarono. — Rimettiamoci in marcia. Parleremo dopo. — Mi voltai a guardare nel punto dove ci eravamo acquattati Pete e io, e lui era svanito. Non mi diedi altre preoccupazioni: Pete è in gamba.
Janet non era realmente pesante o corpulenta; era soltanto incinta di parecchi mesi. Cercai di prenderle una valigia; non me lo permise. — È meglio portarne due. Si equilibra il peso.
Così finii col reggere una cesta da viaggio per gatti che conteneva mamma gatta. E un grosso pacco avvolto in carta marrone che Ian teneva sotto il braccio. — Janet, cosa ne hai fatto dei micini?
— Grazie alla mia influenza — rispose per lei Freddie — hanno ottenuto un’eccellente posizione, con buone possibilità di carriera, come addetti al controllo dei roditori in un grosso allevamento ovino del Queensland. E ora, Helen, ti prego di informarmi come sia accaduto che tu, tu che solo ieri sei stata vista seduta alla destra del signore e padrone di un enorme incrociatore di linea, oggi ti ritrovi unita ai bifolchi nelle viscere di questa fogna.
— Più tardi, Freddie. Quando saremo usciti.
Lui lanciò un’occhiata alla porta. — Ah, sì! Più tardi, con libagioni fra amici e tanti racconti. Per adesso dobbiamo ancora superare Cerbero.
Due mastini, armati, erano al portello, uno su ciascun lato. Cominciai a recitare mentalmente mantra, mentre scambiavo discorsi idioti con Freddie. I due cani da guardia mi guardarono, e tutti e due parvero trovare il mio aspetto in perfetta regola. Forse mi diedero una mano la faccia sporca e i capelli arruffati che mi ero procurata nel corso della notte, perché sino ad allora non avevo mai lasciato la cabina Bb senza che Shizuko lavorasse come una matta per permettermi di vendermi al prezzo migliore.
Superammo il portello, scendemmo una rampa, e ci fecero mettere in fila davanti a un tavolo. Dietro erano seduti due impiegati con un quintale di carte. Uno urlò: — Frances, Frederick J.! Fatti avanti!
— Qui! — rispose Federico, e mi girò attorno per presentarsi al tavolo. Una voce alle mie spalle gridò: — Eccola lì! — e io lasciai andare di colpo mamma gatta e balzai verso l’orizzonte.
Intuii vagamente un’attività frenetica dietro di me, ma non vi prestai attenzione. Volevo solo uscire il più in fretta possibile dal raggio di tiro di uno storditore o di un lanciacordamoschicida o da un mortaio per lacrimogeni. Non avrei mai potuto distanziare una pistola-radar o un fucile normale, ma di quelli non dovevo preoccuparmi, se Pete aveva ragione. Continuai semplicemente a mettere un piede davanti all’altro. Alla mia destra c’era un villaggio, e avanti diritto degli alberi. Per il momento gli alberi mi parevano una scelta migliore. Continuai a correre.
Un’occhiata alle spalle mi disse che il grosso del branco era rimasto indietro. Normale; posso fare mille metri in due minuti secchi. Però due tizi mi tallonavano e forse stavano guadagnando terreno. Così rallentai, con l’intenzione di prenderli per la testa e farli esibire in una bella capocciata, o qualcosa del genere.
— Non fermarti! — rantolò Pete. — Noi dovremmo inseguirti.
Non mi fermai. L’altro tipo con le gambe veloci era Shizuko. La mia amica Tilly.
Dopo essermi addentrata fra gli alberi, fuori portata visiva dalla nave, mi fermai a vomitare. Mi raggiunsero. Tilly mi tenne ferma la testa, poi mi pulì la bocca e cercò di baciarmi. Io girai la faccia. — No. Devo avere un sapore orribile. Sei scesi dalla nave vestita a quel modo? — Indossava un body da ginnastica che la faceva apparire più alta, più snella, più occidentale e molto più femminile di quanto fosse mai stata la mia «cameriera personale».
— No. Kimono e obi. Li ho lasciati da qualche parte. Impossibile correre con quella roba addosso.
Pete intervenne, irritato. — Basta con le chiacchiere. Dobbiamo portarti via da qui. — Mi afferrò per i capelli, mi baciò.
— Chi se ne frega del sapore che hai? Muoviamoci!
Ci muovemmo, restando fra gli alberi e allontanandoci sempre più dalla nave. Però molto presto, fu chiaro che Tilly aveva una caviglia slogata e che la situazione peggiorava a ogni passo. Pete mugugnò di nuovo. — Quando tu sei partita a razzo, Til era solo a metà della scaletta del ponte di prima classe. È saltata giù e ha atterrato male.
— Sono quei maledetti sandali giapponesi. Non sostengono. Pete, prendi la piccola e scappa. A me non faranno niente.
— Un accidenti — ribatté secco Pete. — Ci siamo in mezzo tutti e tre, fino alla fine. Giusto, signo… Giusto, Friday?
— Perbacco, sì! Uno per tutti, tutti per uno. Prendila sulla destra, Pete. Io la prendo a sinistra.
Nella corsa a cinque gambe ce la cavammo abbastanza bene, senza battere record di velocità ma continuando a mettere sterpaglie fra noi e gli inseguitori. Un po’ più tardi, Pete disse che voleva caricarsela sulla schiena. Io diedi l’ordine di fermarci. — Ascoltiamo.