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Neppure la parola “moglie” era corretta. Klast era la yat-dija, “compagna”. Finché fosse rimasta nel mondo dei neanderthal, meglio sforzarsi di pensare con le loro categorie.

Quando i laser ebbero finito con Mary, il quadrato luminoso al di sopra della porta cambiò colore, segnalandole che doveva uscire. Lei eseguì, e cominciò a indossare abiti locali, mentre Ponter si sottoponeva a sua volta alla decontaminazione. Durante la sua prima visita, Ponter si era preso il batterio Streptococcus equii, a cui i sapiens sono immuni ma i neanderthal no. Quindi, la decontaminazione era obbligatoria.

Solo chi non aveva altra scelta abitava nel quartiere di Cornelius. Driftwood era un postaccio pieno di criminali e spacciatori. Il suo unico pregio era di trovarsi a breve distanza dalla York University.

Cornelius scese al piano terra in ascensore. Nonostante tutto, a quella casa era… be’, “affezionato” sarebbe dire troppo, ma se non altro le era riconoscente. Il fatto di poter raggiungere a piedi il campus gli permetteva di risparmiare sui costi di un’automobile o sull’abbonamento alla metropolitana.

Era una bellissima giornata, con cielo azzurro e limpido; Cornelius indossava un giaccone scamosciato. Oltrepassò la rivendita con sbarre alle vetrine: un negozietto specializzato in riviste porno e alimenti in scatola. Era il locale in cui lui si riforniva di sigarette, ma per fortuna in quel momento aveva ancora una scorta.

Attraversò la strada, diretto al campus. Era un pigiapigia di studenti, alcuni in maniche corte, altri con la felpa. Cornelius immaginava che avrebbe potuto escogitare un piano per procurarsi testosterone all’Università; per esempio, proponendo un progetto laboratoriale in cui ce ne fosse bisogno. Poteva sembrare un buon incentivo per tornare al lavoro. Eppure…

Eppure, in lui erano avvenuti dei cambiamenti decisivi. Tanto per cominciare, non aveva più incubi, anzi ronfava come un ghiro. Non restava più sveglio un’ora o due, prima di prendere sonno, intento a masticare rabbia per tutte le cose storte della sua vita.

È vero, per qualche giorno avrebbe voluto restare inchiodato al letto per sempre; ma quel sentimento era passato. Ora si sentiva… no, non pieno di energie, non pronto per la battaglia quotidiana, ma in uno stato in cui non ricordava di trovarsi dai tempi delle elementari, durante le vacanze estive, lontano dai bulli della scuola.

Cornelius si sentiva calmo.

— Buongiorno, professor Ruskin — disse una squillante voce maschile.

Lui si voltò. A salutarlo era stato uno dei suoi studenti del corso sugli organismi eucarioti, un certo… John? Jim? Il ragazzo sognava di diventare docente di Genetica. Cornelius avrebbe tanto voluto convincerlo a lasciar perdere: non c’era posto per chi fosse maschio e bianco. Però si limitò a un: — Salve!

— Bentornato! — disse lo studente, allontanandosi in un’altra direzione.

Cornelius proseguì verso il Farquharson Life Sciences Building. Aveva inserito il pilota automatico, per cui si accorse solo all’ultimo momento, con un sobbalzo, di essere finito davanti al…

Il luogo non aveva un nome, né lui gliene aveva mai dato uno personale. Due pareti di sostegno che si incrociavano ad angolo retto, a una certa distanza dai lampioni, al coperto di alcuni grossi alberi. Era lì che aveva spinto due donne, quelle due notti. Era lì che lui aveva fatto vedere a Qaiser Remtulla chi fosse il maschio dominante. E dove aveva sfondato Mary Vaughan.

Cornelius aveva l’abitudine di venire qui anche in pieno giorno, quando aveva bisogno di tirarsi un po’ su. Il solo ricordo di essersi fatto valere, una volta tanto, gli procurava un’erezione di soddisfazione. Oggi no, però.

I muri erano coperti di graffiti. Cornelius non era l’unico ad apprezzare quel posto: anche i virtuosi della spray-art, o le coppiette che volevano giurarsi eterno amore, come…

Come lui e Melody, quando avevano scritto le loro iniziali su un cuore dipinto.

Cornelius cacciò il pensiero, diede un’ultima occhiata a quell’angolo e poi si allontanò.

Era una giornata troppo bella per restasene ad ammuffire in ufficio, pensò, girando i tacchi verso casa.

12

“Così come fu questo spirito a mettere le ali a Orville e Wilbur Wright, ad Amelia Earhart, a Chuck Yeager…”

Quando Mary e Ponter uscirono dall’ascensore della miniera di Debrai, lei rimase sorpresa nello scoprire che era già buio, nonostante si fosse solo a metà del pomeriggio. Alzò gli occhi e restò senza fiato.

— Dio mio, non avevo mai visto uno stormo del genere — esclamò. Gli uccelli erano così numerosi da offuscare il sole. Emettevano un verso come kek-kek-kek!

— Davvero? — disse Ponter. — Qui sono una specie molto diffusa.

— Direi! — rispose Mary. Avevano corpi rosacei e teste blu-grigie. — Ehi, ma sono colombe migratrici! Ectopistes migratorìus. Le conosco bene, ho lavorato al recupero del loro DNA.

— Da voi sono estinte, non è così?

— Sì.

— Per colpa dei gliksin?

Mary annuì, poi alzò le spalle. — Abbiamo dato loro una caccia spietata.

Ponter scosse la testa. — Ora capisco perché siete stati costretti a ricorrere all’agricoltura. Noi li chiamiamo quidrat, e hanno carni prelibate.

— Sul serio?

— Sì. Sono sicuro che ne gusterai anche tu durante questo periodo di permanenza.

Non appena Hak si fu ricollegato alla rete d’informazione planetaria, Ponter gli chiese di affittare un cubo volante. Il veicolo aveva le dimensioni di un suv, ma si muoveva grazie a grandi ventole montate alla base e sulla faccia posteriore, oltre a tre più piccole per i cambiamenti di direzione. Quasi interamente trasparente, il cubo conteneva quattro sedili a forma di sella; su uno di essi era sistemato l’autista, un 146 dall’aria impeccabile.

Il veicolo rallentò e si posò a terra; uno dei lati si sollevò verso l’alto. Ponter e Mary presero posto sui due sedili posteriori; Ponter diede qualche indicazione all’autista e lui ripartì manovrando una coppia di leve.

Prima di uscire dalla miniera, Mary si era fissata al braccio un Companion provvisorio, così come dovevano fare tutti i gliksin in visita. L’impianto monitorava ogni loro movimento e ne trasmetteva registrazione all’archivio degli alibi. Solo che quel maledetto affare le dava fastidio; Mary si mise a grattarsi con l’estremità di una biro. — Anche quelli fissi sono così fastidiosi? — chiese a Ponter.

— Non mi accorgo neppure della presenza fisica di Hak — rispose lui. — Ah già, a proposito…

— Sì?

— I Companion provvisori hanno un’autonomia di una ventina di giorni. Infatti ricevono energia da una batteria, non dal metabolismo della persona. Però, dato che sei un’ospite privilegiata, sicuramente te ne verrà procurato un altro.

Mary sorrise. Non era abituata a fare la star. — No — disse. — Penso che dovrei farmene installare uno permanente.

Ponter s’illuminò. — Lo apprezzo molto. — Poi aggiunse: — Però ricorda che “permanente” significa “permanente”. Farlo rimuovere sarebbe un’operazione delicata, che potrebbe danneggiare parte della muscolatura e del sistema nervoso del braccio.

Mary annuì. — Capisco. Ma mi rendo anche conto che, senza un Companion l’isso, qui resterò un’estranea.

— Grazie di cuore — ripeté Ponter. — Che modello preferisci?

Mary era incantata a osservare il paesaggio, come il Canada, ma incontaminato. — Prego?

— Be’, esiste il modello standard. Oppure… — e mostrò il proprio — uno come il mio, in cui è installata un’intelligenza artificiale avanzata.

Mary sollevò un sopracciglio. — Non ci avevo pensato.