Il suo urlo improvviso ci fece sobbalzare. Il giovane schiaffeggiava freneticamente l’aria intorno alla testa con una mano, scendendo giù per il tronco con l’ausilio dell’altra. Quando fu più vicino compresi che era stato attaccato da uno sciame di api furiose.
Mi precipitai sotto l’albero. Chron scivolò e perdette la presa, cadendo fra i rami più bassi. Percorsi gli ultimi passi che mi dividevano da lui e lo presi al volo fra le braccia, poi entrambi cademmo a terra con un rumore sordo e poco dignitoso. L’aria fuoriuscì con violenza dai miei polmoni, e sentii le braccia dolere come se si fossero staccate dalle spalle.
Le api giunsero al suo inseguimento: uno sciame ronzante e bellicoso.
— Nel fiume! — gridai. Tutti e nove corremmo come se avessimo un demonio alle calcagna e ci tuffammo senza un minimo di dignità fra le gelide acque del fiume mentre le api, furibonde, riempivano l’aria come una minacciosa nuvola di dolore. Nessuno fra i miei compagni sapeva nuotare, ma tutti imitarono i miei movimenti mentre abbassavo la testa sotto il pelo dell’acqua allontanandomi carponi dalla riva.
Nove teste balzarono fuori dall’acqua, mentre una moltitudine di mani si muovevano freneticamente per proteggersi dai minuscoli torturatori. Eravamo sufficientemente lontani dalla riva; lo sciame di api distava ora parecchi metri, continuando a ronzare per reclamare i propri diritti ma senza più perseguitarci.
Per alcuni minuti rimanemmo coi piedi nel fango e il volto appena sopra al livello dell’acqua. Le api fecero ritorno al loro alveare in cima all’albero.
Mi tolsi dal viso il gambo fradicio di una ninfea. — Pensi ancora che io sia un dio? — domandai a Noch.
Gli uomini scoppiarono a ridere. Noch rise fragorosamente indicando il viso di Chron, pieno di protuberanze e rosso come il fuoco per le punture. Non era certo una cosa di cui burlarsi, ma in quel momento tutti ci sbellicammo dalle risa. Tutti tranne il povero Chron.
Avanzammo parecchi metri in direzione della corrente prima di uscire dall’acqua. Chron soffriva molto. Lo feci sedere su un tronco e lo esaminai con cura fino a scorgere i minuscoli pungiglioni sul suo volto e sulle spalle gonfie, per poi lavorarmeli con le unghie. Ogni volta il malcapitato strillava e sussultava, ma alla fine riuscii a estrarglieli tutti. Quindi spalmai fango sulle minuscole ulcerazioni.
— Come ti senti adesso? — domandai.
— Meglio — rispose lui, con aria sconsolata. — Il fango è rinfrescante.
Noch e gli altri ridacchiavano ancora. Il volto di Chron era impiastricciato a tal punto che solo gli occhi e la bocca erano ancora visibili.
Il sole si era abbassato verso occidente. La luce del sole non sarebbe durata tanto a lungo da permetterci di rintracciare il nostro orso, e tantomeno di affrontarlo. Ma ero incuriosito dalla descrizione che Chron aveva dato del fiume davanti a noi.
Così tagliammo per i boschi, allontanandoci dalla riva del fiume per incontrarne l’ansa successiva. Avanzavamo con difficoltà; il sottobosco era fitto e intricato, spine e ortiche ci ferivano le gambe nude. Dopo circa mezz’ora scorgemmo nuovamente l’acqua, ma in quel punto il fiume era così ampio da sembrare un lago.
E, chino sulla riva, il nostro orso fissava le piccole onde che increspavano lievemente la superficie dell’acqua. Rimanemmo immobili, trattenendo il respiro, nel folto di alcuni rovi di mora selvatica. L’aria soffiava verso di noi, portando il nostro odore lontano dalle sensibilissime narici dell’orso. Non poteva sapere che eravamo così vicini.
Era una bestia di taglia enorme, dal pelo bruno rossastro. Se Chron si fosse messo in piedi sulle spalle di Noch, l’orso eretto sulle zampe posteriori sarebbe stato ancora più alto di loro. Potei avvertire la gelida mano della realtà richiudersi impietosa intorno alla gola dei miei intrepidi cacciatori. Uno di loro, alle mie spalle, deglutì producendo un sonoro schiocco.
In un’altra epoca avevo già ucciso un animale simile. L’improvviso ricordo di quell’episodio mi fece raggelare.
L’orso, ignaro della nostra presenza, si mise sulle quattro zampe e mosse una mezza dozzina di passi lenti e sicuri nelle acque del lago. Quindi si fece immobile, gli occhi fissi nell’acqua. Infine percosse l’acqua con la zampa, e un grosso pesce argenteo volò piroettando nell’aria, le squame scintillanti sotto la luce del sole, per poi cadere sull’erba dimenando la coda e sforzando le branchie nel disperato tentativo di riprendere a respirare.
— Hai sempre intenzione di affrontarlo? — sussurrai a Noch in un orecchio.
L’uomo si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore e i suoi occhi erano colmi di terrore, ma ugualmente riuscì a sollevare e abbassare ripetutamente il capo in segno d’approvazione. Ci eravamo spinti troppo avanti per pensare di poter tornare alle nostre case con nient’altro da mostrare che le punture d’ape sul volto coperto di fango di Chron.
Con rapidi cenni della mano feci disporre a semicerchio il mio gruppetto di cacciatori, segnalando loro di acquattarsi tra i cespugli. Lentamente, mentre l’orso era ancora impegnato a pescare, mi sfilai l’arco dalle spalle. Dopo aver fatto cenno agli altri di rimanere al loro posto, cominciai ad avanzare sul ventre, con cautela, simile più a una serpe che a un valente cacciatore.
Sapevo che quelle frecce rudimentali non erano abbastanza precise da poter colpire a distanza anche un bersaglio grosso come quello. Continuai a strisciare fra i rovi mentre gli uccelli schiamazzavano sopra di me e uno scoiattolo strideva in tono di rimprovero dall’alto del suo albero.
L’orso sollevò lo sguardo girandosi d’attorno, e io mi feci piatto sul terreno. Poi l’animale tornò alle sue mansioni. Un altro guizzo della zampa e un’altra trota uscì dall’acqua compiendo un ampio arco lucente.
Mi alzai lentamente su un ginocchio e tesi l’arco al massimo. L’orso era così grosso e vicino che non potevo mancarlo. Scoccai la freccia. Il dardo si conficcò tra le costole della belva, emettendo il classico suono sordo del legno che colpisce la carne.
L’orso ansimò, più seccato che dolorante, e si guardò intorno. Allora balzai in piedi e incoccai un’altra freccia al mio arco. La bestia ruggì e si mise eretta sulle zampe posteriori, raggiungendo un’altezza pari al doppio della mia. Mirai alla gola, ma la freccia piegò in aria infilzandosi nella spalla dell’animale. Doveva aver colpito l’osso, perché si fermò di colpo come se avesse urtato un’armatura.
Adesso la bestia era veramente furibonda. Ululando con tanta forza da far vibrare il terreno, si abbassò sulle quattro zampe e cominciò a caricarmi. Presi a correre nella speranza che i miei cacciatori fossero sufficientemente coraggiosi da balzare fuori dai loro nascondigli e attaccare l’orso su tutti i lati.
E così fecero. L’animale avanzava velocemente tra i cespugli appena dietro di me quando otto uomini, spaventati ma esultanti, gli affondarono le lance nei fianchi. L’orso ruggì nuovamente e si guardò intorno, pronto ad affrontare i suoi nuovi persecutori.
Non fu un bello spettacolo. Le lance si spezzavano in cascate di schegge, il sangue scorreva a fiotti. Uomini e bestia ruggivano per il dolore e la rabbia. Colpimmo il povero animale fino a quando non fu che un mucchio di pelo tremante fra i cespugli sporchi di sangue. Gli assestai il colpo di grazia col pugnale, e l’orso delle caverne crollò finalmente sul terreno, dove rimase immobile.
Per alcuni istanti rimanemmo a terra, tremando per la spossatezza e per l’iperproduzione di adrenalina. Anche noi eravamo coperti di sangue, ma era quello della nostra vittima. Soltanto l’uomo di nome Pirk si era rotto un braccio. Lo tirai, provocando le sue grida di dolore, quindi improvvisai una fasciatura assicurandolo a un pezzo di legno piatto che avevo ricavato dal ramo di un albero.
— Anya sa preparare unguenti miracolosi — dissi. — Presto il tuo braccio tornerà a posto.