Gli altri si fecero mesti. I loro occhi erano spalancati in un’espressione di supplica.
— Supponiamo che noi rimaniamo qui con voi fino a quando i vostri padroni ci troveranno — dissi. — Vi puniranno ugualmente, se diremo che siamo stati noi a uccidere il rettile, e che voi non ne avete nessuna responsabilità?
Rimasero a guardarsi l’un l’altro con la bocca spalancata, come bambini. — Certo che ci puniranno! Puniranno ognuno di noi. È la legge.
Mi voltai verso Anya. — Allora dobbiamo andare via.
— E portarli con noi — convenne Anya.
Esaminai la zona in cui eravamo. Il Nilo aveva scavato un ampio, profondo avvallamento tra le rocce calcaree che si ergevano frastagliate su entrambe le sponde del fiume. In cima a esse, secondo Anya, doveva stendersi una vasta prateria. Se davvero un giorno quella regione sarebbe diventata il Sahara, allora doveva snodarsi per centinaia di chilometri verso sud e migliaia di chilometri verso ovest. Una savana sterminata, la cui piatta monotonia era interrotta soltanto da qualche collina isolata o qualche avvallamento scavato dal fiume. Non era certo una regione in cui fosse semplice nascondersi, soprattutto per sfuggire a creature in grado di volare e di vedere al buio. Ma era sempre meglio che rimanere intrappolati tra il fiume e le pareti del suo letto.
Non dubitavo che gli schiavi dicessero il vero riguardo i loro padroni rettili. La bestia che Anya e io avevamo ucciso era un dinosauro, ormai ne ero certo. Perché allora escludere la presenza di pterosauri alati, o di altri rettili in grado di percepire le fonti di calore nell’ambiente circostante, come fanno le vipere?
— Ci sono alberi nelle vicinanze? — domandò Anya. — Non quelli del giardino; alberi selvatici, una foresta.
— Oh — disse il vecchio. — Vuoi dire Paradiso.
Lontano verso sud, disse, c’erano boschi, ruscelli e selvaggina in abbondanza, ma era una zona proibita. I padroni non volevano che loro vi facessero ritorno.
— Allora un tempo vivevate laggiù? — domandai.
— Moltissimi anni fa — rispose quello, con aria malinconica. — Quand’ero ancora più giovane di Chron, qui. — Fece un cenno a indicare il più giovane dei due adolescenti.
— Quant’è lontano?
— Molti soli.
Voltatomi verso sud, dissi: — Allora dirigeremo verso Paradiso.
Non fecero nessuna obiezione, ma era evidente che provavano un indicibile timore. La loro forza d’animo era stata quasi del tutto spenta. Eppure, sebbene non desiderassero affatto seguirmi, non riuscivano a vedere nessuna valida alternativa. I loro padroni li avevano terrorizzati a tal punto che per loro qualsiasi scelta non faceva nessuna differenza; erano certi che li avrebbero comunque presi e puniti nel più orribile dei modi.
Il mio intento primario era quello di allontanarmi dalla carcassa del rettile. Ci sarebbe voluto un bel po’ di tempo al signore di quel giardino per rendersi conto che uno dei suoi animali ammaestrati era stato ucciso e che un gruppo di schiavi era fuggito. Probabilmente avremmo potuto disporre di un certo numero di ore a nostro vantaggio, e allora sarebbe scesa la notte. Se fossimo riusciti a muoverci con sufficiente velocità, avremmo potuto guadagnarci una possibilità di sopravvivenza.
Ci arrampicammo su per il pendio. Non fu un’impresa difficile come avevo temuto; la pietra era scabra e formava sporgenze che quasi sembravano gradini. I miei compagni si arrampicarono a fatica, con me che aprivo la fila e Anya a guardarne le spalle.
Raggiunta la cima, constatai che Anya aveva ragione. Davanti a noi si stendeva una sterminata distesa d’erba che andava fino all’orizzonte, verde, rigogliosa e apparentemente priva di vita animale. Un’ampia savana senz’alberi che si estendeva dalla curvatura settentrionale dell’Africa fino alle coste atlantiche. Verso sud, secondo le parole dello schiavo dalla barba grigia, c’era la foresta che aveva chiamato Paradiso.
Puntando l’indice della mano sinistra, comandai: — A sud.
Cercai di segnare il passo più veloce che fosse possibile e gli schiavi mi seguirono quasi di corsa, col fiato corto. Probabilmente non si lamentarono soltanto perché non avevano il fiato per farlo. Ma ogni volta che mi girai per vedere se riuscivano a mantenere quell’andatura, li vidi guardarsi alle spalle in attesa dell’inevitabile.
Non sudavo molto, nonostante il calore del sole basso sull’orizzonte. Ero solito associare il sole con il Radioso, il Creatore che si faceva chiamare Ormazd in un’era e Apollo in un’altra, il folle megalomane che mi aveva creato per dare la caccia ai suoi nemici nel corso degli eoni.
— Devi lasciarli riposare — disse Anya, portandosi agilmente al mio fianco attraverso l’erba alta fino al ginocchio. — Sono sfiniti.
Approvai con riluttanza. Scorsi un modesto rilievo e, raggiuntane la base, detti ordine di fermarsi. Gli schiavi stramazzarono a terra, ansimando; fiumi di sudore disegnavano rivoli nella polvere che copriva i loro corpi.
Salito in cima alla collinetta, alta meno di dieci metri, mi guardai intorno. Non mi riuscì di vedere nemmeno un albero. Nient’altro che una savana priva di sentieri, in ogni direzione. In un certo senso era emozionante trovarsi in un tempo e in un luogo in cui nessuno avesse ancora segnato col proprio passaggio piste o sentieri. A occidente, lungo l’orizzonte, il cielo cominciava a tingersi di un brillante colore vermiglio. Più in alto la volta celeste si faceva sempre più scura. Era già visibile una stella, sebbene il crepuscolo fosse ancora lontano a venire.
Era più lucente di qualsiasi altra stella avessi mai visto in qualsiasi era. Non tremolava affatto, ma brillava di una costante luce rosso cupo, quasi bruna; era così grande e luminosa da indurmi a pensare di osservare un disco invece che un semplice puntolino. Il pianeta Marte? No, era più brillante di quanto Marte non fosse mai stato, persino nei cieli tersi di Troia, migliaia di anni nel futuro di quella terra. E il suo colore era più intenso rispetto al rosso rubino di Marte, simile quasi a sangue rappreso. Né poteva essere Antares: l’immenso gigante rosso nel cuore dello Scorpione baluginava come qualsiasi altra stella.
Un grido di terrore mi fece risvegliare dalle mie riflessioni astronomiche.
— Guardate!
— Stanno arrivando!
— Ci sono dietro!
Guardai in direzione delle braccia tese dei miei nuovi compagni e vidi un paio di creature alate attraversare zigzagando il cielo di nordest. Pterosauri, senza dubbio. Le loro enormi ali di pelle battevano pigramente, mentre i loro lunghi becchi appuntiti puntavano verso il terreno. Indubbiamente erano in cerca di noi.
— Restate assolutamente immobili — ordinai. — Stendetevi a terra e non muovete un solo dito!
Rettili alati in volo a simili altezze dovevano dipendere dalla vista più che da qualsiasi altro senso. Il mio gruppetto di schiavi era scuro come la terra. Se non avessero attirato l’attenzione col movimento, forse gli pterosauri non li avrebbero scorti. Si appiattirono a terra, quasi invisibili ai miei stessi occhi nell’erba alta.
Ma i raggi del sole calante scintillavano sulle vesti metalliche di Anya. Per un attimo pensai di dirle di scivolare all’ombra della collina. Ma non ce n’era il tempo, e il movimento avrebbe colpito lo sguardo degli pterosauri. Così mi appiattii a mia volta sul crinale della collina e sperai che i rettili non fossero così intelligenti da pensare che uno scintillio metallico fosse qualcosa su cui investigare meglio.
Sembrarono passare molte ore mentre i giganteschi rettili alati attraversavano il cielo zigzagando in un complesso intreccio da cacciatori esperti. A terra li si sarebbero detti goffi e sgraziati, con quei lunghi becchi e quelle creste ossee, ma in aria erano davvero splendidi. Sembravano volare senza sforzo, librandosi con grazia sull’onda delle correnti d’aria calda che salivano dalla pianura erbosa.