Gli uomini stavano imparando a cacciare la piccola selvaggina che brulicava in quella sterminata prateria, e le donne raccoglievano bacche e frutti.
Ogni volta che scorgevamo uno pterosauro nel cielo sopra di noi ci gettavamo a terra, immobili come un topo quando avvista un falco in cerca di prede. Quindi riprendevamo il cammino verso Paradiso. E l’orizzonte rimaneva sempre piatto e lontano come il primo giorno della nostra marcia.
Talvolta in lontananza scorgevamo branchi di animali che brucavano l’erba, grosse bestie della taglia di bisonti o alci. Una volta riuscimmo ad avvicinarci a essi fino a poter vedere la preda mancata di qualche felino avanzare a fatica, ultima tra le file del branco; le femmine avanzavano snelle e aggraziate fra l’erba alta, i maschi forti e temibili coi loro incisivi simili a scimitarre e il pelo ispido. Si limitarono a ignorarci, e noi ci tenemmo al largo il più possibile.
Anya mi preoccupava. Non l’avevo mai vista turbata prima d’allora, ma certo adesso lo era. Sapevo che ogni notte cercava di mettersi in contatto coi Creatori, gli esseri semidivini che avevano generato la razza umana. Mi avevano creato per fare di me un cacciatore, e nel solco dei millenni io li avevo serviti con riluttanza sempre maggiore. A poco a poco continuavo a ricordare altre missioni, altre vite. Altre morti.
Una volta ero vissuto in un’altra tribù di cacciatori e raccoglitori del Neolitico, lontano da questa monotona savana, in una terra collinosa nei pressi di Ararat. Un’altra volta avevo guidato un gruppo di soldati attraverso le nevi dell’Era Glaciale, dopo averli aiutati a massacrare gli ultimi Neanderthaliani.
Anya era sempre stata al mio fianco, spesso nei panni di un comune mortale di quel tempo e luogo, sempre pronta a proteggermi, persino di fronte alla disapprovazione degli altri Creatori.
Adesso avanzavamo verso un Paradiso che poteva anche rivelarsi nient’altro che una leggenda, braccati da mostri demoniaci che sembravano aver assunto il controllo totale di questo aspetto del continuum. E Anya era impotente come ognuno di noi.
Qualche notte facevamo l’amore, copulando come gli altri sul terreno, silenziosi, furtivi, cercando di non farci vedere o sentire dagli altri, come se ciò che facevamo fosse qualcosa di cui vergognarsi. Le nostre passioni erano brevi e prive di entusiasmo, tutt’altro che appaganti.
Passarono molte notti prima che cominciassi ad accorgermi che la donna che avevo salvato dal rettile aveva preso a dormire vicino a me. Lei e il suo bambino rimanevano a una certa distanza, ma ogni notte si avvicinavano di più. Anche Anya se ne accorse, e una sera le parlò con tatto.
— Si chiama Reeva — mi disse il mattino seguente. — Suo marito è stato frustato a morte dal rettile di guardia per aver cercato di rubare un po’ di cibo per lei, perché potesse allattare il piccolo.
— Ma perché…?
— Tu l’hai protetta. Hai salvato lei e il suo bambino. È molto timida, ma sta cercando il coraggio per chiederti di diventare la tua seconda donna, se tu la vorrai.
Mi sentii più confuso che sorpreso. — Ma io non voglio un’altra donna!
— Shh — Anya mi ammonì, sebbene non parlassimo nella lingua di quella gente. — Non devi rifiutarla apertamente. Ha bisogno di qualcuno che la protegga, e in cambio può offrire solo il proprio corpo.
Lanciai uno sguardo furtivo in direzione di Reeva. Non doveva avere più di quattordici o quindici anni. Esile come uno spago, coperta dalla sporcizia di molti giorni, con i capelli sporchi e arruffati. Teneva il bimbo su un fianco e procedeva rassegnata insieme al resto della tribù.
Anya, che si lavava ogni volta che riuscivamo a trovare acqua e intimità sufficienti, sembrava prendere la situazione con una certa leggerezza. Avrei detto, anzi, che la trovasse divertente.
— Non puoi cercare di spiegarle — la pregai — che ho già intenzione di proteggerli tutti, senza bisogno di… incentivi da parte sua?
Anya sorrise e non rispose.
Ogni notte quella stella sinistra ci guardava da lassù come una macchia splendente di sangue rappreso, brillando con tale intensità da proiettare le nostre ombre sul terreno, più luminosa della luna stessa. Nemmeno la luce dell’alba riusciva a oscurarla del tutto, ed essa splendeva nel cielo del mattino fino a scendere sotto l’orizzonte. Non poteva trattarsi di un pianeta. Era lì, unica fra tutte le stelle, minacciosa, agghiacciante.
Una notte domandai ad Anya se sapeva cosa fosse.
Rimase a fissarla per un lungo istante, e la luce scura dell’astro rese il suo bel volto fosco e cinereo. Poi le lacrime le riempirono gli occhi e scosse il capo.
— Non lo so — rispose, con un sospiro che lasciava intendere una malcelata afflizione. — Non so più nulla.
Cercò di trattenere le lacrime, ma non ci riuscì. Singhiozzando, premette il volto contro la mia spalla, perché gli altri non la sentissero piangere. La strinsi a me, a disagio. Non avevo mai visto una dea piangere.
Secondo i miei calcoli fu durante l’undicesimo giorno di marcia che il giovane Chron si precipitò da me con dipinto sul volto un sorriso da un orecchio all’altro.
— Là, sulla collina! Ho visto degli alberi! Molti alberi!
Il giovane era andato in avanscoperta. Nonostante le fatiche della marcia e il terrore che ci spronava ad avanzare, la tribù sembrava adesso versare in condizioni fisiche migliori di quando l’avevamo incontrata. Mangiavano regolarmente, e la loro dieta era ricca di proteine. Il giovane Chron aveva un aspetto di gran lunga migliore, e sicuramente era molto più in forze anche solo rispetto a un paio di giorni prima. I solchi profondi fra le sue costole cominciavano a riempirsi.
Salii con lui verso la cima della collina e da lì vidi che la terra all’orizzonte non era più una piatta distesa d’erba. Era mutata in una linea frastagliata di alberi che ondeggiavano come per invitarci a raggiungerli.
— Paradiso! — Noch si era portato al mio fianco. La sua voce tremava di gioia e di emozione.
Procedemmo alla massima velocità possibile in direzione degli alberi e infine, sul calar della sera, ne raggiungemmo la fresca ombra e ci lasciammo cadere stremati sul terreno coperto di muschio.
Tutt’intorno a noi torreggiavano querce dai rami contorti, pini alti e slanciati, eleganti abeti emananti aromi balsamici; aggraziati tronchi sottili di giovani betulle punteggiavano quel mondo verde di fronde. Il terreno era coperto di felci e muschi. Notai alcuni funghi premuti fra le radici di un’enorme, vecchia quercia e fiori che ondeggiavano delicatamente sotto una brezza leggera.
Una grande sensazione di sollievo ci sommerse tutti, un senso di sicurezza; come se fossimo giunti in un luogo in cui i terribili timori che ci avevano accompagnati durante tutto il viaggio potevano infine venire dissipati. Gli uccelli cinguettavano allegri fra i rami come per offrirci il loro benvenuto a Paradiso.
Mi alzai a sedere e inspirai una profonda boccata di quell’aria fresca, pulita, fragrante di pino, rosa selvatica e cannella. Anche Anya sembrava felice. Udimmo lo sciacquio di un ruscello oltre i cespugli che crescevano fra i tronchi degli alberi.
Un daino apparve da uno di quei cespugli e per un momento rimase a guardarci coi suoi grandi occhi scuri. Quindi si voltò e fuggì via.
— Cosa ti dicevo, Orion? — disse Noch, raggiante per la felicità. — Questo è Paradiso!
Quella sera gli uomini misero in pratica le rudimentali tecniche di caccia che avevo insegnato loro per catturare un maiale selvatico sceso al ruscello per abbeverarsi. Dimostrarono molto più entusiasmo che abilità e il maiale, strillando come un ossesso, fuggì per parecchie centinaia di metri prima che riuscissero a infilzarlo con le loro lance rudimentali. Ma festeggiammo fino a notte inoltrata, quindi cademmo in un sonno profondo.