Non aveva paura degli uomini. Forse non ne aveva mai visto uno. Di certo non ne avrebbe potuti vedere mai più.
Il cinghiale piegò il capo e cominciò a lambire l’acqua piuttosto rumorosamente. Con un solo, rapido movimento scattai in piedi e sollevai la lancia sopra la testa. Con ambo le mani ne scagliai la punta nella schiena dell’animale, conficcandogliela fra le costole. La sentii penetrare in quella pelle coriacea, aprendosi la strada verso il cuore e i polmoni.
Il cinghiale stramazzò a terra senza emettere un suono. I cervi sul lato opposto dello stagno, spaventati dal mio movimento improvviso, indietreggiarono di qualche metro, ma presto tornarono presso la sponda.
Mi congratulai con me stesso per la facilità di quella caccia, mentre svolgevo il crudo compito di scuoiare il cinghiale e tagliarne a pezzi le parti migliori coi miei strumenti di pietra.
Ma mi ero rallegrato troppo presto.
Il primo segno di pericolo venne quando i cervi sollevarono di colpo il capo tutti insieme per poi sparire fra gli alberi. Ma io non me ne accorsi. Ero inginocchiato sulla mia preda, intento a farne a pezzi la carcassa pregustando una cena succulenta.
Allora udii dietro di me un ruggito che poteva venire soltanto dalla gola di un leone. Mi voltai lentamente, senza fare movimenti bruschi, e vidi un enorme felino dalla criniera irsuta e i denti a sciabola fissarmi con occhi dorati e lucenti, con la saliva che gli scendeva da un lato della bocca.
Voleva la mia preda. Come un mafioso opportunista mi aveva lasciato compiere tutto il lavoro per poi appropriarsi dei frutti delle mie fatiche.
Lanciai un’occhiata fra le ombre dei cespugli per capire se era un maschio isolato o se con lui c’erano altre leonesse pronte a saltarmi addosso. Sembrava che fosse solo. Osservandolo con maggiore attenzione vidi le costole sporgere dal suo ventre scarno. Poi la fiera cominciò ad avanzare verso di me.
Doveva essere malato, o ferito, oppure troppo vecchio per mettersi a cacciare. Era ridotto ad arraffare le prede di altri animali dopo averli messi in fuga.
Per quanto malato, comunque, era pur sempre dotato di zanne e artigli micidiali. I miei sensi entrarono in ipervelocità non appena mi resi conto che la lancia giaceva in terra a più di un braccio di distanza.
Se mi fossi allontanato, con tutta probabilità la belva si sarebbe diretta sulla preda, permettendomi di fuggire. Ma se avesse deciso di aggredirmi, voltarle la schiena avrebbe potuto rivelarsi un errore fatale.
L’animale mosse un altro passo verso di me ed emise un ruggito. Dalla sua andatura conclusi che doveva essersi ferito alla zampa posteriore sinistra.
Non avevo alcuna intenzione di abbandonare il mio pasto a favore di quell’ospite inatteso. Se aveva intenzione di bluffare, ero in grado di farlo anch’io. Lentamente, mentre ci fissavamo senza batter ciglio, mi sporsi per raggiungere la lancia. Non appena le mie dita ne raggiunsero il legno, la fiera decise di agire con qualcosa di più che un ruggito.
Fece un balzo verso di me. Io afferrai la lancia e, disteso sul terreno, mi rotolai lontano dalla traiettoria del suo balzo. Per quanto ferita, la belva atterrò in piedi sulla carcassa del cinghiale, apprestandosi a spiccare un altro balzo verso di me.
Poggiai l’asta della lancia contro il terreno e mirai alla sua gola. L’impeto del suo stesso balzo lo trafisse sulla punta, spinto dal proprio peso.
Il sangue scese a fiotti, e la bestia lanciò un ruggito gorgogliante mentre calava gli artigli contro di me. Uno dei suoi colpi mi raggiunse il petto prima ancora che avessi il tempo di lasciar cadere la lancia e indietreggiare.
La bestia ululò girando su se stessa, cercando di far fuoriuscire la lancia dalla propria gola. Me la svignai, privo di armi a eccezione delle mani nude, senza poter fare altro che restare a guardare quella bestia dai denti a sciabola rotolarsi fra la polvere, assestando potenti zampate alla staffa della lancia mentre il suo sangue si spargeva a fiotti sul terreno.
Era una morte orribile. D’impulso balzai in piedi e corsi verso la bestia morente. Tirai la lancia verso di me con tutte le forze, e infine riuscii a estrargliela dalla gola. Ruggimmo insieme in un misto di furia assassina e rispetto selvaggio mentre gli affondavo la punta della lancia nel cuore.
Vidi la luce dei suo occhi bruni vacillare e smorzarsi e in parte provai vergogna, in parte esultai per la mia vittoria. Lo avevo finito, avevo messo fine alle sue sofferenze.
Ma mentre abbassavo lo sguardo su quella carcassa un tempo nobile e temibile, pensai che presto sciacalli e altri animali in cerca di carogne avrebbero banchettato con le sue carni imputridite. Non c’è nessuna dignità nella morte, pensai mesto dentro di me. Soltanto i vivi posseggono una dignità.
33
Fu così che mi procurai una pelle di leone con cui coprirmi la testa e le spalle mentre mi avvicinavo al villaggio di Kraal.
Seguii l’unica nuvola di fumo che oscurava il cielo altrimenti sgombro, riflettendo che il villaggio doveva essersi allargato notevolmente dall’ultima volta in cui vi ero stato. Ma il secondo giorno di marcia mi accorsi che era una nuvola troppo grossa, troppo persistente per provenire dai fuochi di un accampamento. Cominciai a temere il peggio.
A mezzogiorno cominciai a fiutare la morte nell’aria: l’odore acre e nauseabondo della carne bruciata. Vidi molti uccelli volare a cerchi alti nel cielo. Non pterosauri, avvoltoi.
Era pomeriggio inoltrato quando uscii dal sottobosco di rovi giungendo in vista del villaggio di Kraal. Era stato raso al suolo, ogni sua capanna ridotta in ceneri fumanti, il terreno annerito. Al centro della piazza principale sorgeva un cumulo di cadaveri carbonizzati, dalle fattezze irriconoscibili. Gli avvoltoi volteggiavano nel cielo, con inesauribile pazienza. Attendevano che il terreno si facesse più freddo e che i cadaveri smettessero di fumare, prima di scendere e dare inizio al loro banchetto.
M’inginocchiai per esaminare le impronte dei dinosauri e degli shaydiani disseminate per tutto il villaggio. Le loro orme indicavano che si erano diretti a nord-est, verso la fortezza di Set. Fra esse vi erano alcune impronte di piedi umani. Non tutti nel villaggio erano stati uccisi.
Mi alzai in piedi e scrutai l’orizzonte in direzione nord-est. Così, quella era stata la ricompensa che Kraal e Reeva avevano ricevuto per la loro collaborazione. Set e i suoi mostri avevano razziato il villaggio, uccidendo gran parte dei suoi abitanti. Coloro che erano stati risparmiati erano in marcia verso la schiavitù.
Mi ritrovai a sperare che Kraal e Reeva fossero fra loro. Volevo incontrarli, volevo che mi vedessero. Volevo che mi dicessero quanto fosse proficuo stringere un patto col demonio.
Incamminandomi verso la fortezza di Set, mi chiesi cosa fosse accaduto a Chron, a Vorn e agli altri schiavi che avevo liberato. Erano morti o caduti nuovamente in schiavitù?
Per tutta la giornata e gran parte di quella successiva seguii le tracce che i dinosauri avevano disseminato nel sottobosco. Dapprima pensai di affrontarli, ma presto cancellai quell’idea dalla mia mente. Il mio tentativo di liberare gli schiavi sarebbe stato insensato; sarebbe servito soltanto ad avvertire Set, confermandogli la mia presenza. Per quanto possibile volevo approfittare dell’elemento sorpresa; era praticamente l’unica arma di cui disponevo quando l’avessi incontrato.
Sul calar della sera del secondo giorno di marcia notai una serie di impronte umane che divergevano da quelle del gruppo principale. I dinosauri guidavano i loro prigionieri verso nord-est, in direzione della fortezza di Set; il loro percorso era dritto attraverso la foresta come una strada romana o un volo di freccia.