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— Tornerai da me? — domandai.

— Gli altri Creatori hanno troppa paura di Set! Distruggendo Sheol avevano pensato di uccidere anche lui, ma adesso sanno bene quanto saldamente egli si sia stabilito sulla Terra. Tu solo hai il potere di fermarlo, Orion. L’esistenza dei Creatori dipende esclusivamente da te.

— Ma non potrò mai farcela da solo! — gridai alla sua voce che si affievoliva sempre più. Potevo sentire la sua presenza allontanarsi, scemare, la statua perdere il suo aspetto vivente per ritornare di freddo marmo.

— Dovrai usare i tuoi mezzi, Orion — sussurrò la voce di Anya. — I Creatori nutrono troppo timore nei suoi confronti per affrontarlo loro stessi.

— Tornerai da me? — ripetei.

— Ci proverò.

— Ho bisogno di te!

— Quando più avrai bisogno di me sarò al tuo fianco, Orion. — La sua voce era più fioca del frullio d’ali di una civetta. — Quando più avrai bisogno di me, amore mio.

34

Mi ritrovai nuovamente solo nella piazza principale, di fronte alla statua senza vita di Atena.

Solo. I Creatori volevano che affrontassi Set e i suoi demoni senza il loro aiuto.

Privo di forze, esausto, mi sedetti sui gradini di marmo del Partenone, il capo sepolto fra le mani. Sul lato opposto della piazza il grosso Buddha dorato sorrideva placido verso di me.

Per la prima volta in tutte le mie vite dovevo affrontare una situazione in cui la mia forza non aveva praticamente alcun valore. Avrei dovuto contare soltanto sulla mia mente, sul potere del pensiero, per sconfiggere Set. Fisicamente era molto più forte di me, come sapevo bene. Disponeva di un intero esercito di shaydiani e di molte legioni di dinosauri.

Io avevo il mio corpo e la mia astuzia. Nient’altro.

La statua del Buddha sembrava guardarmi con un sorriso amichevole e benigno.

— È facile per te predicare la rinuncia ai desideri — brontolai a voce alta verso la statua di legno rivestito d’oro. — Ma io ho i miei desideri. Ho i miei bisogni. E ciò di cui ho maggiormente bisogno è un esercito…

La mia voce si interruppe a metà della frase.

Sapevo dove trovare un esercito. Un esercito che aveva riportato un gran numero di vittorie, dal deserto del Gobi alle rive del Danubio. L’esercito di Subotai, il più grande dei generali mongoli, conquistatore di gran parte dell’impero di Gengis Khan.

Alzatomi in piedi, raccolsi l’energia mentale necessaria a proiettarmi nel tredicesimo secolo dell’era cristiana, nell’epoca in cui l’impero mongolo si stendeva dalle coste della Cina alle pianure d’Ungheria. Ero già stato laggiù. Avevo assassinato il loro gran Khan, Ogotai, figlio di Gengis Khan. L’uomo che mi era stato amico.

La città dei Creatori scomparve mentre avvertivo di nuovo quel freddo criogenico attraverso lo spaziotempo. Per un istante fui privo di corpo nel vuoto totale del continuum. Poi mi trovai nel mezzo di una prateria percossa dal vento, il cui cielo era coperto da pesanti nuvole grigie. Non c’era un solo albero, e in lontananza potevo scorgere la sagoma di una città protetta da mura stagliarsi contro il cielo scuro.

M’incamminai in quella direzione. Cominciò a piovere, una pioggia gelida mista a nevischio. Strinsi la pelle di leone più stretta intorno alle mie spalle e accelerai il più possibile la circolazione sanguigna nei capillari per mantenere la temperatura interna del mio corpo. La testa e le spalle piegate in avanti, procedetti fra la pioggia gelida mentre il terreno sotto i miei piedi si trasformava in fango scivoloso.

La città non era in preda alle fiamme, il che poteva significare che l’esercito di Subotai l’aveva posta in assedio oppure che l’aveva già catturata. Pensai più probabile quest’ultima possibilità, perché non scorsi nessun accampamento, né guerrieri di pattuglia a cavallo.

Era già notte fonda quando raggiunsi le porte della città. Il muro che la cingeva non era che una rozza palizzata di pali appuntiti, piantati in quello che stava rapidamente trasformandosi in un mare di fango. Il portale era un insieme di assi lisce dotato di alcune fessure attraverso le quali poter scagliare le frecce.

Era aperto. Buon segno. Non era imminente nessuna battaglia.

Una mezza dozzina di guerrieri mongoli si riparavano dalla pioggia sotto il parapetto aggettante del portale, riscaldandosi al calore di un fuocherello che crepitava irregolarmente, solamente in parte protetto dalla pioggia scrosciante.

Quei guerrieri erano tenaci veterani di guerra, coperti di cicatrici. Eppure senza i loro pony sembravano piccoli, quasi come bambini. Bambini piuttosto temibili, a ogni modo. Indossavano una casacca di cotta e un elmetto conico d’acciaio. Dalle loro cinture pendevano pugnali e sciabole ricurve. Notai gli immancabili archi e le faretre colme di frecce appoggiati contro le tavole del portale.

Uno di loro si fece avanti e mi si parò di fronte.

— Alt! — ordinò. — Chi sei, e perché vuoi entrare?

— Sono Orion, amico del grande Subotai. Vengo dal Karakorum, e porto un messaggio da parte del Gran Khan.

Gli occhi del guerriero si fecero sottili come fessure. — I nobili hanno eletto un nuovo Gran Khan come successore di Ogotai?

Scossi il capo. — Non ancora. Kubilai e gli altri si stanno riunendo in Karakorum per compiere la loro scelta. Il mio messaggio riguarda altre faccende.

Il Mongolo posò gli occhi sulla mia pelle di leone, e ricordai che non doveva aver mai visto un denti-a-sciabola prima d’allora. Ma non mostrò alcun segno di curiosità. — Che prova puoi darmi a sostegno delle tue parole?

Sorrisi. — Manda un messaggero al cospetto di Subotai, che riferisca che Orion è qui per incontrarlo, fornendogli una mia descrizione. Vedrai che sarà contento di incontrarmi di nuovo.

Mi squadrò dalla testa ai piedi. Fra i Mongoli la mia taglia era decisamente fuori dal comune. E Subotai conosceva bene le mie qualità di guerriero. Speravo che non gli fosse giunta ancora voce del fatto che avevo assassinato il Gran Khan Ogotai.

Il guerriero mandò uno dei suoi uomini al cospetto di Subotai quindi, a malincuore, mi permise di dividere il modesto calore del loro fuoco.

— È una bella pelle quella che indossi — disse un’altra guardia.

— Ho ucciso questo animale molto tempo fa — risposi.

Mi dissero che quella città era la capitale dei Moscoviti. Ricordai che Subotai era stato impaziente di imparare tutto ciò che potevo riferirgli sulle nere regioni dell’Ucraina e sulle steppe della Russia che diradavano nelle pianure di Polonia e, al di là dei Carpazi, in Ungheria e verso il cuore dell’Europa.

Quando il messaggero fece ritorno la mia schiena era un blocco di ghiaccio, sebbene le mani e il viso fossero ancora ragionevolmente caldi. Insieme al messaggero giunse una coppia di guerrieri vestiti di lucenti corazze, con ricchi gioielli incastonati nell’elsa delle spade. Senza dire una parola, costoro mi guidarono attraverso le strade piene di fango della capitale dei Moscoviti, verso gli alloggi di Subotai.

Non era molto diverso dal Subotai che avevo incontrato in una vita precedente. Piccolo e robusto come tutti i suoi guerrieri, la sua barba e i capelli erano grigi come il ferro, e i suoi occhi erano di un nero straordinariamente intenso. Erano occhi vivaci e intelligenti, curiosi di conoscere tutto ciò che esisteva su questo mondo.

Aveva occupato una chiesa, probabilmente in quanto quella struttura di legno era l’edificio più grande esistente in città, in modo da costituire un salone piuttosto spazioso per le udienze.

Percorsi tutta la lunghezza della navata in direzione di Subotai; tutti i banchi della chiesa erano stati portati via. Le immagini severamente pie dei santi bizantini osservavano meste le file di colonne fra le quali l’altare era stato rimosso. Subotai sedeva lì insieme a pochi altri suoi fedeli compagni e una dozzina circa di giovani donne locali che servivano vino e cibo.