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Dietro di lui, l’abside della chiesa era carica di bassorilievi d’oro scintillanti alla luce delle candele. Parte dell’oro era già stata smantellata dalle pareti; da quel che sapevo, presto i Mongoli avrebbero fuso anche quel poco che ne era rimasto. La volta, alta sopra la mia testa, era impreziosita da un mosaico raffigurante un Cristo con le mani ferite sollevate in segno di benedizione. Rimasi stupito per l’estrema somiglianza del suo volto con quello del Creatore che conoscevo col nome di Zeus.

Guerrieri armati indugiavano pigramente lungo le pareti laterali della chiesa sconsacrata, bevendo e parlando fra di loro. Non mi lasciai ingannare dalla loro apparente indolenza. Nel giro di un istante potevano mozzare la mano di chiunque avesse compiuto il più piccolo gesto minaccioso. A un solo ordine di Subotai erano pronti a ricompensare un mentitore o chiunque recasse un dispiacere al loro generale versandogli argento fuso negli occhi e nelle orecchie.

Tuttavia quei Mongoli conoscevano i valori della lealtà e dell’onestà molto meglio di gran parte dei cosiddetti popoli civilizzati. E il loro coraggio era fuori discussione. Potevano attaccare la più inespugnabile delle fortificazioni fino a quando nessuno di loro fosse rimasto in vita.

Subotai beveva da un calice dorato su cui erano incastonate un gran numero di gemme. I luogotenenti seduti al suo fianco reggevano coppe d’argento e d’alabastro. Non avrebbe mai cessato di meravigliarmi: per quanto un popolo fosse povero o rozzo, le sue chiese costituivano sempre un bottino sostanzioso per qualsiasi razziatore.

— Orion! — gridò Subotai, balzando in piedi. — L’uomo dell’Occidente!

Sembrava sinceramente contento di rivedermi. Nonostante i capelli grigi era agile e impetuoso come un ragazzo.

— Mio nobile Subotai. — Mi fermai a qualche passo di distanza da lui e feci un inchino. Quando l’avevo conosciuto, era pervaso da un’inarrestabile energia in grado di trascinare lui e le sue armate fino ai più remoti recessi della Terra. Ero felice di constatare che quell’energia non si era affievolita. Sarebbe stata estremamente utile, se avesse deciso di accettare la mia richiesta.

Mi stese la mano, e io strinsi il suo polso con lo stesso vigore con cui lui afferrò il mio.

— È un piacere incontrarti di nuovo, uomo dell’Occidente.

— Ti ho portato un dono, mio signore — dissi, con tono solenne.

Mi tolsi di dosso la pelle del denti-a-sciabola e gliela porsi. La testa dell’animale era rimasta piegata all’indietro, e fino a quel momento il Mongolo non aveva potuto ammirarne le zanne lucenti. Le guardò con occhi stralunati.

— Dove hai scovato una bestia simile?

Non potei trattenermi dal sorridere. — Conosco luoghi in cui dimorano animali strani e portentosi.

Egli mi ricambiò il sorriso e mi guidò verso i cuscini sui quali era stato seduto. — Raccontami le ultime notizie del Karakorum.

Mentre faceva cenno di sedere sui cuscini alla sua destra, tirai un sospiro di sollievo. Subotai non mi avrebbe mai stretto le mani, se avesse avuto intenzione di uccidermi. Non era capace di tradire un amico. Né lui né alcuno dei suoi luogotenenti sembravano a conoscenza della morte del Gran Khan Ogotai, l’uomo che, in un’altra vita, era stato mio amico.

Mentre una giovane bionda mi porgeva una tazza d’oro e una ragazza altrettanto bella versava in essa vino speziato, annunciai che Ogotai era morto nel sonno, e che io l’avevo incontrato la notte stessa della sua dipartita.

— Sembrava compiaciuto che l’impero mongolo regnasse in pace su quasi tutto il mondo conosciuto. Penso che fosse felice per il fatto che nessun nemico sia rimasto a combattere i Mongoli.

Subotai annuì, ma il suo volto assunse un’espressione triste. — Presto, Orion, l’inimmaginabile potrebbe accadere. Mongoli potrebbero rivolgersi contro Mongoli. Le antiche guerre tribali del Gobi potrebbero rifiorire, ma questa volta sarebbero eserciti di incredibile potenza a darsi battaglia da un capo all’altro della Terra.

— Come può essere? — domandai, sinceramente stupito. — La Yassa vieta che un Mongolo versi il sangue di un fratello.

— Lo so — rispose Subotai, con aria triste. — Ma temo che nemmeno la legge della Yassa possa fermare la battaglia che sta per scatenarsi.

Coricati fra i cuscini di seta, sotto lo sguardo pio dei santi bizantini che ci osservavano dall’alto del loro paradiso dorato e immutabile, Subotai mi spiegò quel che stava accadendo fra i generali mongoli.

In parole povere, non era rimasto loro alcun lembo di terra da conquistare. Gengis Khan, il condottiero che ricordavano con tanta reverenza da non osare nemmeno di pronunciarne il nome, aveva instradato le tribù del Gobi verso la conquista del mondo. Con tutta la Cina e l’Asia da combattere, i guerrieri del Gobi avevano interrotto i loro incessanti conflitti tribali per intraprendere uniti quella gloriosa impresa. Adesso erano padroni del mondo intero, fatta eccezione per le terre desolate e paludose d’Europa e il subcontinente indiano in cui il calore uccideva uomini e cavalli.

— L’elezione del nuovo Gran Khan porterà la divisione fra i Mongoli — predisse Subotai con mestizia. — Sarà un’ottima scusa per tornare ai vecchi conflitti interni al nostro popolo.

Adesso capivo. L’impero di Alessandro il Grande si era diviso allo stesso modo, coi generali che si combattevano l’un l’altro per mantenere il possesso del territorio da essi stessi conquistato o per sottrarre quello di un vecchio compagno in armi.

— Cos’hai intenzione di fare, mio nobile Subotai? — chiesi.

Il Mongolo vuotò il proprio calice e lo abbassò al proprio fianco. Immediatamente una delle schiave lo riempì fino all’orlo.

— Io non infrangerò le leggi della Yassa — disse. — Non farò mai scorrere sangue mongolo.

— Non volontariamente — commentò uno degli uomini che sedevano intorno a noi.

Subotai annuì, la bocca una linea sottile dipinta in un sofferente sorriso. — Guiderò i miei guerrieri verso occidente, Orion, oltre il fiume che chiami Danubio. È una terra difficile, fredda e coperta di cupe foreste. Ma è sempre meglio che combattere fra noi.

Se Subotai aveva intenzione di marciare sull’Europa, avrebbe sconfitto quella civiltà che iniziava solo in quel momento a scrollarsi di dosso le catene d’ignoranza e barbarie seguite al crollo dell’Impero Romano. Pochi secoli più tardi sarebbe fiorito il Rinascimento, con tutto ciò che esso rappresentava per il sapere e la libertà degli uomini. Ma tale processo non sarebbe certo avvenuto se i Mongoli avessero seminato distruzione da Mosca fino al canale della Manica.

— Mio nobile Subotai — dissi, scandendo le parole — un tempo mi hai chiesto di dire tutto ciò che sapevo di questa terra in cui ora siete accampati e delle terre che si stendono più a ovest.

Parte del vigore che aveva mostrato allora tornò nei suoi occhi.

— Già! E adesso che sei tornato da me, sono ancora più impaziente di apprendere altre notizie sui Franchi, sui Germani e sulle altre popolazioni dell’estremo occidente.

— Ti dirò tutto ciò che so, ma come già sai le loro terre sono fredde e coperte da foreste, e costituiscono un territorio disagevole per un guerriero mongolo.

Subotai tirò un profondo sospiro. — Ma quali altre terre esistono per i miei uomini?

La sua domanda fece affiorare un sorriso sulle mie labbra.

— Conosco un luogo, mio signore, in cui la prateria si stende per quanto un uomo possa cavalcare nel giro di un anno. Un luogo popolato da grossi felini coi denti a sciabola e altri animali ancora più feroci.

Subotai sgranò gli occhi, e i guerrieri intorno a lui si portarono più vicini.

— Pochi uomini popolano quei luoghi, così pochi che è possibile cavalcare per settimane senza incontrarne uno.