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— Così non potremo combattere?

— Dovrete combattere, invece — dissi. — È una terra dominata non da uomini, ma da mostri quali nessuno ha mai visto prima d’ora.

— Mostri? — domandò impulsivamente uno dei guerrieri. — Che genere di mostri?

— Ne hai mai visti di persona?

— Hai intenzione di spaventarci con delle frottole, uomo dell’Occidente?

Subotai li fece zittire con un cenno d’impazienza.

— Sono stato laggiù, miei signori, e ho visto di persona quella terra e i mostri che la dominano. Sono spietati, potenti e malvagi.

Passai l’ora successiva descrivendo Set e i suoi cloni shaydiani, nonché i dinosauri che aveva portato con sé dal Mesozoico.

— Gli esseri di cui parli — disse infine Subotai — si direbbero molto simili ai djinn dei Persiani o ai folletti temuti dai popoli delle montagne.

— Sono temibili, questo è certo — dissi. — E posseggono grandi poteri. Ma non sono spettri, né fantasmi. Sono esseri mortali, come voi o me. Io stesso ne ho ucciso qualcuno con poco più che una lancia o un coltello.

Subotai si lasciò sprofondare nuovamente nei suoi cuscini di seta, con aria meditativa. Gli altri continuarono a bere e a porgere i loro boccali in richiesta di altro vino. Bevetti anch’io. E attesi.

Infine, Subotai domandò: — Potresti guidarci in questa terra?

— Certo, mio nobile Subotai.

— Mi piacerebbe vedere questi mostri coi miei stessi occhi.

— Posso portartici.

— Fra quanto tempo? Quanto tempo occorre per compiere questo viaggio?

Improvvisamente compresi di essermi cacciato da solo in una trappola. Trasportando Subotai e gli altri Mongoli indietro nel Neolitico avrei rivelato loro poteri tali da convincerli che fossi uno stregone. I Mongoli non trattavano troppo bene gli stregoni; erano soliti passarli a fil di spada o ucciderli in modi ancor più atroci.

Inoltre, una volta raggiunto il Neolitico, avrebbero potuto benissimo osservare i rettili di Set e concludere che si trattava di creature soprannaturali. Sebbene i Mongoli non temessero alcun essere umano sulla terra, la vista degli shaydiani avrebbe potuto terrorizzarli.

— Mio nobile Subotai — risposi prudentemente — la terra di cui parlo non può essere raggiunta a dorso di cavallo. Potrei guidarvi domattina stessa, se lo desiderate, ma il viaggio potrebbe apparirvi piuttosto strano.

Il Mongolo mi guardò di sbieco. — Sii più preciso, Orion.

Gli altri si sporsero in avanti, più incuriositi che preoccupati.

— Sapete che vengo da una terra lontana — dissi.

— Da oltre il mare che si stende fino al cielo — disse Subotai, citando ciò che gli avevo detto anni prima.

— Già — confermai. — Nella mia terra la gente è solita viaggiare in modi piuttosto strani. Non hanno bisogno di cavalli. Possono valicare le montagne e attraversare i mari in un batter d’occhio.

— Stregoneria! — commentò con asprezza uno dei guerrieri.

— No — risposi. — Soltanto un modo per viaggiare più velocemente.

— Come i tappeti magici di cui narrano i cantastorie di Bagdad? — domandò Subotai.

Afferrai al volo quell’idea. — Infatti, mio signore, qualcosa di molto simile.

Subotai inarcò un sopracciglio.

— Ho sempre pensato che simili racconti non fossero altro che favole per bambini.

Chinando leggermente il capo in segno di umiltà, risposi: — Le favole talvolta possono tramutarsi in realtà, mio signore. Tu stesso hai compiuto imprese che sarebbero sembrate inverosimili ai vostri antenati.

Il generale mongolo emise nuovamente quel suono simile a un sospiro. Gli altri rimasero in silenzio.

— Molto bene — disse Subotai. — Domattina mi condurrai in quella strana terra che hai descritto. La mia guardia personale ci accompagnerà.

— Quanti uomini verranno con noi? — domandai.

Subotai abbozzò un sorriso. — Circa un migliaio. Tutti con armi e cavalli.

Il guerriero seduto al suo fianco sinistro disse, senza intenzioni umoristiche: — Avrai bisogno di un tappeto molto grande, Orion.

Gli altri scoppiarono a ridere. Subotai sorrise, quindi, leggendo la sorpresa sul mio volto, sbottò in una sonora risata. Ridevano di me. Gli altri guerrieri si rotolavano sui loro cuscini, sbellicandosi fino alle lacrime. Anch’io presi a ridere a mia volta. I Mongoli non ridono degli stregoni e delle loro pratiche magiche. Perciò non mi temevano. E finché non mi avessero temuto, non avrebbero cercato di pugnalarmi alle spalle.

35

Uno dei veterani al seguito di Subotai mi guidò verso uno stallo nel coro della chiesa in cui erano stati sistemati un certo numero di coperte e di cuscini così da formare un giaciglio. Il mio sonno fu profondo e privo di sogni.

Il mattino seguente il sole splendeva malato attraverso brandelli di nuvole grigie. La pioggia era cessata, ma le strade di Kiev erano torrenti di fango grigiastro e viscoso.

Il furiere di Subotai aveva passato la notte a rovistare tra le prede di guerra in cerca di una veste che potesse calzarmi. Evidentemente, nulla che fosse stato confezionato per un Mongolo mi andava bene.

Scesi verso la navata della chiesa sconsacrata, vestito di una maglia di cotta, pantaloni di pelle e stivali un po’ troppo aderenti ma caldi. Al mio fianco pendeva una scimitarra ricurva d’acciaio di Damasco, con l’elsa scintillante di pietre preziose. Il vecchio, fedele pugnale donatomi da Odisseo in persona era nascosto nella mia cintura.

Uno schiavo dai capelli rossi mi guidò al di fuori della chiesa, dove un paio di guerrieri mongoli attendevano sui loro pony. Reggevano per le redini un altro cavallo, un po’ più grande degli altri due, che doveva essere destinato a me. Senza pronunciare una sola parola cavalcammo attraverso le strade coperte di fango, oltrepassando il portale che avevo varcato la notte precedente.

Al di là delle mura della città attendeva la guardia personale di Subotai, un migliaio di coraggiosi guerrieri che avevano battuto tutti gli eserciti schieratisi contro di loro dalla Grande Muraglia Cinese alle rive del Danubio. A cavallo di animali piccoli ma robusti, disposti in perfetta formazione militare, ogni guerriero reggeva per le redini due o tre cavalli di scorta carichi di tutto l’equipaggiamento di cui poteva aver bisogno.

Alla testa della formazione, il magnifico stallone bianco di Subotai pestava il terreno con l’impazienza che sicuramente doveva provare anche il generale.

— Orion! — mi chiamò questi mentre mi avvicinavo a lui. — Siamo pronti per partire.

Erano un ordine e una sfida insieme. Sapevo di dover trasportare l’intera massa di quell’esercito attraverso lo spaziotempo, ma non volevo farlo bruscamente com’ero solito.

Così, con teatralità, osservai la debole luce del sole con gli occhi socchiusi, mi piegai sulla sella scricchiolante e feci un cenno in direzione nord.

— Da quella parte, mio nobile Subotai.

Il generale proruppe in un ordine gutturale rivolto al guerriero che cavalcava al suo fianco e l’intera formazione girò su se stessa, seguendoci a passo di trotto.

Li guidai verso le scure foreste il cui margine si stendeva appena a mezzo chilometro dalle mura della città. Concentrandomi con notevole intensità, pronunciai in silenzio una preghiera d’aiuto rivolta ad Anya mentre cercavo di focalizzare tutta l’energia di cui potessi disporre sul balzo spaziotemporale.

Una tenue nebbia grigia si alzò dal terreno avvolgendoci fra le sue spire gelide. Le nostre cavalcature avanzavano lentamente, Subotai al mio fianco, le sue guardie del corpo dietro di me, sufficientemente vicine da farmi a pezzi al primo movimento sospetto. La nebbia si infittì, smorzando l’udito oltre che la vista. Tutto ciò che riuscivo a udire era l’acciottolio sordo degli zoccoli sul terreno, lo sbuffo di un cavallo, il tintinnio dell’elsa di una spada contro una fibbia di ferro.