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Controllai mentalmente la mia cavalcatura, cancellando l’immagine di quei demoni dalla sua mente mentre la spronavo ad avanzare verso il più vicino fra i carnosauri. Il mio unico pensiero era quello di proteggere Subotai. Già alcuni draghi stavano schiacciando tra le fauci alcuni fra gli uomini caduti di sella, fra grida umane più alte del ringhiare sibilante dei draghi.

Dietro di me si alzò un poderoso ruggito simile a quello di un leone gigantesco, e il terreno prese a tuonare come per lo scalpitìo di migliaia di zoccoli. L’intera guardia di Subotai era uscita alla carica dai boschi, contro i mostri che minacciavano il loro signore.

I miei sensi entrarono in iper-velocità mentre dirigevo il mio povero pony terrorizzato contro le zanne del carnosauro più vicino. Vidi bolle di saliva formarsi fra i suoi denti a sciabola, vidi i suoi sottili occhi da rettile spostarsi da Subotai verso di me, e lo shaydiano sul suo dorso fare lo stesso.

Il carnosauro abbassò verso di me una delle sue micidiali zampe artigliate. Mi lasciai scivolare di sella e caddi a terra, la spada ben salda nella mano. Gli artigli del carnosauro sollevarono letteralmente da terra il mio pony.

Vidi tutto ciò avvenire con estrema lentezza, come in un sogno. Prima che il mostro avesse finito di uccidere il mio cavallo, scivolai fra le sue zampe posteriori, immergendo la scimitarra nelle sue viscere con ogni grammo della mia forza.

Vidi lo shaydiano cadere dalla schiena del colosso con una freccia nel petto. Prima che riuscisse a colpire il suolo, mi guardai alle spalle e vidi Subotai con un’altra freccia già incoccata nel proprio arco, reggendo le redini coi denti, le labbra contratte in quello che avrebbe potuto essere tanto un sogghigno quanto una smorfia.

Il carnosauro cominciò a vacillare sopra di me, e dovetti allontanarmi velocemente mentre il mostro cadeva con un tonfo tale da far tremare violentemente il terreno. La mia spada era ancora conficcata profondamente nel suo ventre, così balzai presso i resti insanguinati di uno dei Mongoli e raccolsi l’arco che aveva lasciato cadere nell’ultimo istante della sua vita.

Ormai anche il resto dell’esercito di Subotai era a portata di frecce, e tutti i dinosauri erano sottoposti a un attacco spietato. I guerrieri erano coraggiosi, ma non avventati. Il loro obiettivo primario era stato quello di salvare il loro comandante Subotai. Una volta constatato che questi era fuori pericolo, si erano portati nuovamente a una certa distanza dal nemico, attaccandolo con le frecce.

Velocemente, metodicamente, uccisero tutti gli shaydiani che avevano cavalcato i draghi. Troppo grossi per venire seriamente feriti dalle frecce, i dinosauri avanzarono allora verso i loro persecutori, che si allontanarono al galoppo a distanza di sicurezza prima di tornare all’attacco. Era come una corrida, con quegli enormi bestioni sanguinanti sempre all’attacco fino a quando il loro sangue si riversava a pozze fra l’erba.

Durante quell’attacco balzai in sella a uno dei cavalli rimasti privi di cavaliere e seguii Subotai che faceva ritorno verso i suoi uomini. Non aveva mai allentato la presa sul suo arco, e continuava a scagliare frecce anche durante la fuga, voltandosi in sella mentre il pony galoppava verso il resto della compagnia.

I poveri rettili, abbondantemente superati di numero, cercarono di fuggire, ma i Mongoli non manifestarono maggiore pietà che timore verso di essi. Partirono al loro inseguimento, mettendo a segno altre frecce fino a costringerli a rallentare, sbuffando e sibilando, e ad affrontarli.

Allora vibrarono il colpo di grazia: i lancieri caricarono i carnosauri feriti sui loro piccoli cavalli muscolosi, una dozzina di San Giorgio dalla pelle scura che infilzarono altrettanti draghi in carne e ossa.

Mi diressi verso il dinosauro che avevo abbattuto per riprendere la spada, seguito da Subotai, che smontò da cavallo per esaminare i corpi degli shaydiani uccisi.

— Sono molto simili ai folletti di cui parlano i popoli della montagna — disse.

Abbassai a mia volta lo sguardo sul cadavere di uno dei cloni di Set. I suoi occhi da rettile erano ancora aperti, con sguardo fisso e vitreo. Le sue squame rossastre erano sporche di sangue, e tre frecce fuoriuscivano dalle sue carni. Le sue zampe erano ormai immobilizzate per sempre, ma ancora avevano un aspetto minaccioso.

— Non sono umani — dissi — ma sono mortali. Muoiono proprio come noi, e anche il loro sangue è rosso.

Subotai rimase a fissarmi per un momento, quindi si diresse verso il luogo in cui i suoi uomini stavano disponendo uno di fianco all’altro i corpi dei mongoli caduti.

— Cinque morti — borbottò.

— Quanti draghi possiede il nemico?

— Centinaia, a dir poco — risposi, osservando i guerrieri mongoli raccogliere rami dai cespugli intorno alla collinetta, per improvvisare una pira funeraria.

Rammentando il pozzo nucleare di cui Set disponeva per compiere i propri balzi attraverso lo spaziotempo, aggiunsi: — E probabilmente è in grado di reclutarne altri per rimpiazzare le proprie perdite.

Subotai annuì. — E la sua città è fortificata?

— Sì. Le mura sono più alte di cinque uomini uno sulle spalle dell’altro.

— Questa schermaglia — disse Subotai — era un tentativo da parte del comandante nemico di determinare quanti siamo e come combattiamo. Quando nessuno dei suoi esploratori farà ritorno, avrà la risposta alla seconda domanda, ma non alla prima.

Chinai il capo. Possedeva grandi qualità tattiche, ma non poteva sapere che Set aveva assistito a quella battaglia attraverso gli occhi dei suoi stessi cloni.

— Devi tornare indietro e portare qui il resto del mio esercito — decise Subotai. — E in fretta, Orion, prima che il nemico possa capire che siamo soltanto in mille… meno cinque.

— Lo farò questa notte stessa, mio nobile Subotai.

— Bene — borbottò.

Stavo per allontanarmi quando il generale mongolo si alzò in piedi e mi strinse una mano sulla spalla. — Ti ho visto caricare quella bestia, quando il mio cavallo era in difficoltà. Mi hai protetto proprio mentre ero più vulnerabile. Sei coraggioso, Orion, amico mio.

— Sembrava la cosa più saggia da farsi, mio signore.

Subotai sorrise. Quel possente Mongolo dalla barba grigia, i capelli arruffati, il volto madido per il sudore della battaglia, quell’uomo che aveva conquistato città e ucciso uomini a migliaia, mi sorrise con aria paterna.

— Tanta saggezza e coraggio meritano una ricompensa. Cosa vorresti da me, uomo dell’Occidente?

— Mi hai già ricompensato, mio signore.

I suoi occhi scuri si dilatarono. — Davvero? E come?

— Mi hai chiamato amico. È una ricompensa più che generosa.

Subotai accennò un sorriso di compiacimento, quindi annuì e mi condusse verso la tenda che la sua guardia aveva montato per lui. Mentre il sole scendeva basso sull’orizzonte, ci dividemmo un pasto a base di carne secca e latte di asina fermentato, quindi sedemmo l’uno di fianco all’altro mentre la pira funeraria veniva accesa e i corpi dei Mongoli caduti salivano verso la loro dimora celeste.

Rimasi con lo sguardo fisso sul fuoco, conscio del fatto che la dimora degli dèi non era che una sontuosa città fantasma nel remoto futuro, abbandonato dagli stessi dèi per salvare la propria vita. Non c’era più nessuno a proteggerci o a guidarci. Non potevamo contare su altri che noi stessi.

— Adesso — disse Subotai, mentre le ultime ceneri della pira ardevano contro l’oscurità della notte — portami il resto del mio esercito.

M’inchinai e mi allontanai di circa un miglio dall’accampamento. Trasportare l’intero esercito e tutti i familiari dei guerrieri che vi facevano parte non sarebbe stato facile. Forse, senza l’aiuto di Anya o degli altri Creatori, non avrei potuto farcela. Ma se non altro, potevo tentare.

Chiusi gli occhi e mi concentrai sulla città di capanne di legno e fango conquistata dai Mongoli. Non accadde nulla.