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La leggenda del Ladro di Luce e del Punitore è un adattamento di alcune idee contenute nel saggio Pianeta dal doppio sole, di Isaac Asimov, e appare in questo libro per gentile e generosa concessione dell’autore.

Postfazione

La storia di Orion prese forma nella mia mente molti anni fa, quando per la prima volta meditai sul concetto che i miti e le leggende dovevano essersi basati, almeno entro certi limiti, su persone o eventi reali.

Gilgamesh, Prometeo, la Fenice che muore nelle fiamme per risorgere dalle proprie ceneri… quante di queste leggende sono semplici invenzioni di fantasia e quante di esse derivano dalla realtà? Non potremo mai saperlo, naturalmente. La polvere della storia ha ormai coperto gli eventi originali, siano essi le storie di uomini e donne realmente esistiti o l’invenzione di qualche abile moralista.

A ogni modo, l’effettivo significato di un mito o di una leggenda non risiede nella loro attendibilità, bensì nella loro capacità di istruire e ispirare chi l’ascolta. Nel corso del tempo, fin dalla nascita del linguaggio, un gran numero di esseri umani hanno vissuto innumerevoli avventure. Soltanto alcune di esse sono servite da nucleo ai miti che hanno ispirato le generazioni a venire.

Come Joseph Campbell e altri con lui hanno evidenziato, alcuni miti sembrerebbero comuni a tutte le civiltà della Terra. Essi sostengono che ogni società umana conosciuta avrebbe adottato una diversa versione dello stesso mito. A esempio, ogni cultura possiede un proprio mito di Prometeo a narrare di come un dio donò il fuoco al genere umano che soffriva il freddo e la fame, e di come gli umani, grazie a esso, acquistassero poteri quasi divini mentre il loro benefattore veniva punito dagli altri dèi.

Nel concepire la saga di Orion notai che essa si muoveva tra storia e mitologia, tra leggenda e archeologia. In questo volume la saga si muove fra le varie branche della storia naturale, sia biologica sia astronomica.

Ma alla base di tutto è la più profonda implicazione del romanzo, un’implicazione che non era ancora del tutto chiara nella mia mente quando cominciai a redigere le fantastiche avventure di Orion. Alludo, ovviamente, alla relazione fra il genere umano e i suoi dèi.

Il romanzo da cui prende l’avvio questa saga, Orion, derivava dalla mia curiosità nei confronti dei neanderthaliani. I paleontologi hanno stabilito che circa cinquantamila anni fa esistevano due specie distinte di Homo Sapiens: la nostra e quella dei neanderthaliani. All’improvviso questi ultimi scomparvero dalla faccia della Terra, e sulle cause della loro misteriosa estinzione è basato il primo romanzo della saga di Orion.

Mentre lo scrivevo, tuttavia, dal mio inconscio era scaturita anche quest’altra tematica più profonda. Ipotizzando gli eredi futuri del genere umano, lontani discendenti della nostra civiltà in possesso di un sapere e una tecnologia infinitamente superiori alle nostre, era possibile che essi riuscissero a ideare un modo per viaggiare attraverso il tempo e creare a loro volta il genere umano.

Agli occhi delle loro creature, essi sarebbero apparsi come dèi. E soprattutto, data una tale possibilità, non avremmo più avuto bisogno degli dèi soprannaturali che affollano le nostre religioni. Abbiamo incontrato i nostri Creatori, come direbbe Pogo, e abbiamo scoperto che essi sono noi!

Che teoria affascinante ed esauriente! Molti filosofi e psicologi dei nostri tempi hanno teorizzato che gli dèi sarebbero semplici creazioni della mente umana, un tentativo per imporre ordine e giustizia a un universo indifferente. Piegando il concetto su se stesso, abbiamo qui una genìa di esseri discendenti dalla razza umana che creano a loro volta l’umanità. Gli dèi venerati dall’uomo hanno sempre dimostrato di essere soggetti alle stesse fobie e vanità della gente comune. Il dio patriarcale del Vecchio Testamento è molto più simile a un bambino petulante e capriccioso. Forse proprio perché gli dèi sono umani quanto noi.

Quel che mancava era solo il viaggio nel tempo.

Così abbiamo Orion, un essere umano generato da un essere superiore affinché possa servirlo e obbedirlo, un cacciatore creato per scovare e distruggere i nemici del suo Creatore. Col tempo, egli comincia a comprendere che i cosiddetti dèi sono umani e fallaci quanto lui. Col tempo comincia ad assumere egli stesso le caratteristiche di un dio. O almeno, vi si avvicina di molto.

Orion diventa allora una metafora del genere umano, che cerca di comprendere la natura di ciò che gli dèi gli impongono di fare. Ogni passo avanti nella sua comprensione lo guida verso uno scalino più alto della propria divinità; un progresso che alcuni dèi approvano e altri no.

Questo per quanto riguarda i concetti alla base della saga di Orion. Occupiamoci adesso del romanzo in questione.

Fra i miti che tutte le culture umane sembrano condividere fra loro è quello degli esseri soprannaturali completamente maligni: diavoli, demoni, i Satana e i Belzebù di cui scrissero Dante e Milton. Le loro descrizioni mi sono sempre sembrate quelle di un rettile.

Creare un rettile satanico per questo romanzo significava teorizzare l’esistenza di una razza di rettili intelligenti almeno quanto l’Homo Sapiens. O meglio, il mio Set (per assegnargli il suo antico nome egiziano) avrebbe dovuto essere intelligente quanto i miei immaginari Creatori, i nostri discendenti di un lontano futuro.

Per anni mi ero lasciato sedurre dalla possibilità di un’intelligenza rettiliforme. I rettili pensanti sono un vecchio cliché della fantascienza, e fra quegli scritti c’è anche il mio primo romanzo, pubblicato trent’anni orsono. Tuttavia ho sempre creduto piuttosto improbabile che i rettili potessero sviluppare una qualche forma d’intelligenza, a prescindere dalla loro effettiva utilità come creature “aliene” per la letteratura di fantascienza.

Nel decennio passato alcuni paleontologi hanno teorizzato che se i dinosauri non fossero scomparsi durante la grande ondata d’estinzioni che afflisse la Terra qualcosa come sessantacinque milioni di anni fa, avrebbero potuto sviluppare una razza intelligente. Dale A. Russell, del Museo Nazionale Canadese di scienze naturali a Ottawa, è il principale fautore di quest’idea. La sua teoria è quella che un piccolo bipede carnivoro del Cretaceo, lo Stenonychosaurus inequalis, col tempo avrebbe potuto evolversi in un rettile intelligente dall’andatura eretta.

Eppure ho sempre pensato che il tempo e le dimensioni del cervello non siano gli unici fattori necessari per lo sviluppo dell’intelligenza. L’intelligenza richiede interazione fra gli individui, comunicazione. Se Albert Einstein fosse nato in una giungla e non avesse mai incontrato un altro essere umano, non avrebbe mai sviluppato la parola, non dico una teoria fisica.

Gran parte dei rettili attualmente viventi depongono le uova per non far più ritorno, lasciando che i loro piccoli se la cavino da soli. Così facevano gran parte dei dinosauri, sebbene almeno una specie di sauri dal becco simile a quello di un’anatra sembrassero aver cura della loro prole. In questo romanzo ho proposto che i rettili evolutisi sull’immaginario pianeta Shaydan, orbitante intorno all’altrettanto immaginaria Sheol, avessero sviluppato l’intelligenza attraverso una forma di telepatia.

La telepatia non è che un artificio, lo ammetto. Ma riflettiamo un attimo sull’esperienza della nostra infanzia. Non è forse vero che le nostre madri hanno spesso manifestato intuizioni al limite dell’incredibile, del tutto simili al potere telepatico?

La teoria astronomica alla base di questo romanzo è piuttosto verosimile (entro certi limiti). È possibile “ricostruire” il sistema solare ponendo una piccola nana instabile a una distanza dal Sole pari a quella attuale di Giove. Le perturbazioni gravitazionali sulla Terra e sugli altri pianeti del nostro sistema solare sarebbero pressoché irrilevanti. La stella compagna del sole avrebbe potuto possedere uno o più pianeti in orbita intorno a essa, così come Giove oggi possiede almeno sedici lune.