Ben Bova
Orion
PARTE PRIMA
Fenice
1
Non sono un superuomo.
Certo, ho delle capacità che vanno molto al di là di quelle di una persona normale, però sono umano e mortale come qualsiasi altro abitante della Terra.
Il nucleo delle mie capacità è a quanto pare nella struttura del mio sistema nervoso. Sono in grado di assumere consapevolmente il controllo di tutto il mio corpo. Sono in grado di dirigere la mia volontà lungo la catena delle sinapsi all’istante, per far sì che qualsiasi parte del corpo faccia esattamente quello che voglio.
L’anno scorso ho imparato a suonare il piano in due ore. Il mio insegnante, un ometto grigio gentile, si rifiutava nella maniera più assoluta di credere che non avevo mai toccato una tastiera prima di quel giorno. Quest’anno ho strabiliato un maestro di Tae Kwan Do imparando in meno di una settimana tutto ciò che lui aveva assimilato in una vita di lavoro incessante. Il maestro ha cercato di prendere la cosa con umiltà ed educazione, ma era chiaro che era furioso con me e si vergognava profondamente della propria reazione. Ho smesso di frequentare le sue lezioni.
I miei poteri stanno crescendo. Sono sempre stato capace di controllare il battito cardiaco e il respiro. Pensavo che tutti potessero farlo, finché non ho cominciato a leggere degli yogi e delle loro capacità mistiche. Per me i loro numeri sono un gioco da ragazzi.
Due mesi fa me ne stavo seduto in un ristorante di Manhattan. Sono tendenzialmente un solitario, quindi spesso pranzo tardi per evitare le folle rumorose. Erano le 3 passate e il ristorante era quasi vuoto. Alcune coppie sedevano ai tavoli, parlando sottovoce. Due turisti di mezz’età stavano studiando circospetti il menù francese, considerando sospettosi piatti mai sentiti nominare. Una coppia di amanti clandestini sedeva verso l’estremità del locale, tenendosi la mano furtivamente e lanciando frequenti occhiate alla porta. Una giovane donna, sola, occupava un posto non lontano dal mio tavolo, vicino all’ingresso. Era molto bella, con capelli scuri che le si arricciavano sulle spalle, e i lineamenti classici e decisi di una fotomodella.
Guardò per caso nella mia direzione, e i suoi occhi calmi e intelligenti mi penetrarono nell’anima. Aveva due grandi occhi, grigi come un mare polare, che sembravano racchiudere tutto lo scibile di questo mondo. D’un tratto mi resi conto che non ero soltanto un tipo solitario; ero anche un uomo solo. Come un ragazzino alla prima cotta, avvertii il desiderio disperato di andare al suo tavolo e presentarmi.
Ma il suo sguardo si spostò verso la porta. Mi girai e vidi entrare un uomo, un uomo incredibilmente bello dalla chioma dorata, di quell’età indefinita che va dai trenta ai cinquanta. Si fermò un attimo sulla soglia, poi andò al banco del bar accanto alla vetrina di cristallo e prese uno sgabello. Anche se indossava un completo grigio, assomigliava più a un divo del cinema o a un’antica divinità greca che a un dirigente di Manhattan intenzionato ad anticipare l’ora del cocktail.
La mia bellezza dagli occhi grigi lo fissò, quasi fosse incapace di sottrarsi al suo fascino. Era circondato da un’aura d’oro. L’aria attorno a lui sembrava sprigionare un luccichio. Nel mio intimo, un ricordo sepolto da lungo tempo cominciò a punzecchiarmi. Avevo l’impressione di conoscerlo, di averlo incontrato tanto tempo prima. Però non riuscivo a ricordare dove o quando, o in quali circostanze.
Tornai a guardare la donna. Con uno sforzo visibile, staccò gli occhi dal tipo radioso e mi osservò, piegando le labbra in un lieve sorriso che poteva essere un invito. Ma la porta si aprì ancora, e lei distolse nuovamente lo sguardo da me.
Un altro uomo entrò nel ristorante e andò dritto al bar, sedendosi lungo la curva del banco e volgendo le spalle alle tende della vetrina. Se il primo uomo era un angelo radioso, costui invece aveva un’aria tenebrosa e infernale. Faccia massiccia e truce, muscoli possenti sotto i vestiti, capelli nerissimi, e occhi che ardevano rabbiosi sotto sopracciglia irsute. Perfino la sua voce sembrava esprimere una furia cupa quando ordinò un cognac.
Finii il caffè e decisi di chiedere il conto, e di fermarmi al tavolo della modella nell’uscire. Cercai il mio cameriere tra i quattro che bighellonavano presso la porta della cucina sul retro del locale conversando in un misto di italiano e francese. Fu questo a salvarmi.
Un ometto calvo in nero sbucò dalla porta a ventola della cucina e lanciò nella sala un oggetto nero ovoidale. Una bomba a mano.
Vidi la scena come se stesse svolgendosi al rallentatore. Ora mi rendo conto che probabilmente i miei riflessi di colpo ingranarono la quinta, entrando in funzione a una velocità fantastica. Vidi l’uomo ritirarsi in cucina, i camerieri irrigidirsi per la sorpresa, le coppie ai tavoli continuare a chiacchierare ignare del fatto che la morte era vicinissima. La bellezza a breve distanza dal mio tavolo volgeva le spalle all’ordigno, ma il barista lo fissò mentre rimbalzava sulla moquette e rotolava pigramente fermandosi a un metro e mezzo da me.
Lanciai un grido d’allarme e balzai al di sopra dei tavoli per spingere la modella fuori dal raggio della deflagrazione. Atterrammo sul pavimento; io le stavo sopra. Lo spicinio di piatti e bicchieri si perse nel ruggito dell’esplosione. Un bagliore, e la sala vibrò, tremò. Poi… fumo, urla, il calore delle fiamme, il puzzo acre dell’esplosivo.
Mi alzai incolume. Il tavolo era spaccato e la parete dietro di noi devastata dalle schegge. Attraverso il fumo, inginocchiandomi, vidi che la giovane donna era svenuta.
Aveva un taglio sulla fronte, però sembrava che non presentasse altre ferite. Mi girai e scorsi le altre persone nel ristorante, mutilate, sanguinanti, esanimi a terra, rannicchiate contro le pareti. Alcuni gemevano. Una donna singhiozzava.
Presi la modella tra le braccia e la portai sul marciapiede. Poi rientrai e portai fuori un paio di feriti. Mentre li depositavo sull’asfalto tra i frammenti della vetrina, la polizia e i pompieri cominciarono ad arrivare a sirene spiegate, seguiti da un’ambulanza. Mi feci da parte, lasciando che fossero i professionisti a prendere in mano la situazione.
Non c’era traccia dei due uomini seduti al bar. Sia il tipo radioso sia quello tenebroso sembravano scomparsi nell’attimo stesso dell’esplosione. Quando mi ero drizzato dal pavimento non c’erano più. Il barista era stato tagliato in due dallo scoppio. I suoi due clienti erano spariti.
Mentre i pompieri domavano le fiamme, i poliziotti stesero quattro cadaveri sul marciapiede e li coprirono con dei lenzuoli. Gli infermieri stavano occupandosi dei feriti. Caricarono su una barella la modella, ancora svenuta. Arrivarono altre ambulanze, e sulla scena dell’esplosione si radunò una folla di curiosi.
— Quei maledetti dell’IRA! — borbottò un poliziotto.
— Cristo, si sono messi a buttare bombe anche qui da noi, adesso?
— Potrebbero essere stati i soliti portoricani, magari — suggerì un altro agente, con voce stanca, esasperata, quasi desolata.
— O i serbocroati. Hanno piazzato quella bomba alla Statua della Libertà, ricordi?
Mi interrogarono per parecchi minuti, poi mi consegnarono al personale sanitario per un rapido controllo sul retro di un’ambulanza.
— Siete fortunato, amico — disse un medico in giacchetta bianca. — Non vi si sono nemmeno scompigliati i capelli.
Fortunato. Mi sentivo intorpidito, come se il mio corpo fosse stato immerso in una densa nebbia avvolgente. Potevo vedere, muovermi, respirare, pensare. Però non provavo nulla, ero insensibile. Avrei voluto essere arrabbiato, o addolorato, o magari spaventato. Invece avevo la stupida calma di un ruminante, fissavo il mondo placido e beato. Pensai alla giovane che stava raggiungendo un ospedale. Cosa mi aveva spinto a cercare di salvarla? Chi era il responsabile dell’attentato? Era lei la vittima designata? O uno degli uomini al banco?