Aprii gli occhi. Adesso la stanza ardeva; l’aria era irrespirabile. Trattenni il fiato, chiedendomi quanto avrei potuto resistere con l’ossigeno immagazzinato nelle mie cellule e nel sangue.
Sapevo come ero arrivato lì dentro. C’era un reticolo di energia che collegava quella cripta con la casa di Ann Arbor… un tunnel che sfruttava l’energia rubata agli atomi per creare un passaggio sicuro e quasi istantaneo tra i due posti. Ma il tunnel stava dissolvendosi, come la stanza. L’energia di quegli atomi torturati stava tornando alla normalità. Tra poco tutto si sarebbe ritrasformato in roccia.
Come potevo trovare l’ingresso del tunnel? Mi concentrai, ma non approdai a nulla. Sudavo, e per il calore e per lo sforzo mentale. Niente da fare. Il mio cervello non era in grado di capire.
Il mio cervello non… Sbagliato! Mi resi conto che finora avevo usato solo una metà del mio cervello per affrontare il problema. Ormazd mi aveva detto che potevo impiegare consciamente entrambi gli emisferi contemporaneamente, dote che gli esseri umani comuni non possedevano. Mi ero servito di un emisfero per visualizzare lo schema geometrico della distorsione energetica che collegava quella tomba alla superficie. Ma quella metà del mio cervello poteva solo percepire geometricamente quelle relazioni spazio-forma.
Sforzandomi, costrinsi l’altro emisfero a esaminare il problema. Mi sembrò quasi di sentire una risata nella testa, mentre la parte inutilizzata della mia mente diceva qualcosa tipo: “Be’, era ora!”
Sì, volendo c’entrava proprio l’ora. La soluzione del problema di trovare la soglia del reticolo di atomi era una questione di scelta di tempo. Quegli atomi opachi stavano ancora vibrando lentamente, una lentezza innaturale, perché erano quasi privi di energia. Però vibravano. Solo quando assumevano una certa formazione il loro allineamento era tale da aprire l’ingresso del tunnel. Per gran parte del tempo erano spostati fuori fase, sparsi, ammassati e confusi come una folla di persone assiepate in una via del centro. Però una volta al secondo raggiungevano la disposizione corretta che schiudeva il tunnel verso la salvezza. Disposizione che si dissolveva poi in pochi microsecondi.
Solo durante quella frazione infinitesimale di tempo il passaggio era aperto. Dovevo entrare nel reticolo, attraversare la parete rovente della camera, esattamente in quell’attimo. Altrimenti…
Mi alzai, avvicinandomi alla parete. Il calore mi strinò le sopracciglia e i peli sul dorso delle mani. Tenni gli occhi chiusi, immaginando il passaggio con una parte del cervello, e calcolando con l’altra il preciso istante in cui il reticolo sarebbe stato percorribile.
Feci un passo avanti. Un attimo di calore tremendo, poi un freddo più intenso del gelo polare. Poi…
Aprii gli occhi. Ero nella cantina buia della casa della STOP. Finalmente, sospirai, e inspirai a pieni polmoni quell’aria fresca e fragrante.
Trovai una porta secondaria e lasciai la cantina, uscendo nella notte fredda. Era una sensazione meravigliosa. Un vicolo tra la casa e la costruzione vicina immetteva sulla strada. La mia auto era ancora là, abbellita da una multa infilata sotto il tergicristallo. Infilai in tasca il foglietto e mi misi al volante, contento che non me l’avessero portata via col carro attrezzi o rubata.
Impiegai dieci minuti per tornare all’impianto. Nell’atrio deserto dell’edificio, telefonai a Tom Dempsey, al capo della sicurezza Mangino, e al direttore tecnico. Era quasi mezzanotte, ma probabilmente il mio tono di voce li convinse che stava accadendo qualcosa di importante. Nessuno dei tre fece discussioni, anche se il computer telefonico dovette provare tre numeri diversi prima di localizzare il dottor Wilson, il direttore tecnico.
Arrivarono nel giro di mezz’ora, e in quei trenta minuti interrogai di persona tutte le guardie di servizio. Nessuno aveva notato alcunché di sospetto. Pattugliavano continuamente i laboratori, dentro e fuori, e la situazione sembrava normalissima.
Il dottor Wilson era un inglese dinoccolato, rubizzo, scarmigliato, che parlava in tono sommesso e aveva un’aria di assoluta imperturbabilità. Arrivò per primo. Mentre gli spiegavo che qualcuno avrebbe tentato di fare esplodere il reattore a fusione, e lui sorrideva tollerante a quell’idea assurda, Dempsey e il capo della sicurezza entrarono nell’atrio insieme. Dempsey sembrava più perplesso che sconvolto. Era spettinato; sicuramente dormiva quando lo avevo chiamato, e si era vestito in fretta e furia. Mangino era decisamente arrabbiato. I suoi occhi castani mi fissarono in cagnesco.
— Sono un sacco di sciocchezze isteriche — ringhiò quando gli esposi i miei timori. Naturalmente, mi guardai bene dal parlare di Ormazd e di Ahriman, e della camera sotterranea da cui ero appena sfuggito. Mi bastava convincerli dell’esistenza di un pericolo reale. Non volevo che mi spedissero in manicomio.
Wilson cercò di dirmi che il reattore non poteva assolutamente esplodere. Lo lasciai parlare; più si dilungava in spiegazioni, più saremmo rimasti sul posto, pronti a intervenire per contrastare le mosse di Ahriman.
— Nel reattore non c’è mai deuterio sufficiente perché possa verificarsi un’esplosione — ribadì Wilson, la voce bassa e amichevole, seduto su uno dei divanetti di plastica dell’atrio. Io ero in piedi accanto alla scrivania della reception. Dempsey si era steso su un altro divano e si era addormentato. Mangino, dietro la scrivania, stava contattando i sorveglianti tramite il videotelefono.
— Ma supponiamo che sia possibile incrementare la potenza dei laser… — replicai, per guadagnare tempo.
— Brucerebbero subito, nel giro di un minuto. Li stiamo già spingendo alla massima potenza — ribatté Wilson.
— …e che venga immessa nella camera di reazione una quantità extra di deuterio…
Wilson scosse il capo, e una massa di capelli color sabbia gli piovve sugli occhi. — Non può succedere. Ci sono doppi circuiti di sicurezza per impedirlo. E anche se dovesse succedere, al massimo si avrebbe una detonazione insignificante, una bottarella da niente… non una bomba all’idrogeno.
— E una bomba al litio, invece? — chiesi.
Per la prima volta, corrugò la fronte, preoccupato. — Cosa intendete dire?
— Se le cose andassero in un certo modo, il deuterio non potrebbe innescare con la sua detonazione il litio della schermatura attorno alla camera del reattore?
— No, no. È impos… — Wilson si bloccò, esitò, quindi disse lentamente: — È improbabile. Molto improbabile. Certo, dovrei fare qualche calcolo, ma le probabilità che un…
— Ventiquattro, a rapporto. — La voce aspra di Mangino interruppe la nostra conversazione.
Mi girai verso il capo della sicurezza. Stava fissando corrucciato lo schermo del telefono. — Maledizione, Ventiquattro, rispondi!
Mi guardò, come se il responsabile fossi io. — Una delle guardie esterne non risponde. Quella che sorveglia la banchina di carico.
— La banchina di carico! — Wilson balzò in piedi, cominciando a tremare.
Mangino alzò una mano. — Manteniamo la calma. Quel tratto è coperto da una delle telecamere esterne. Sembra tutto a posto. Solo che non c’è traccia della guardia. Forse sta facendo una pisciatina o qualcosa del genere.
Andai dietro la scrivania e osservai lo schermo. La zona di carico era illuminata a giorno. Non c’erano auto né camion. Sembrava tutto tranquillo.
— Facciamo un salto laggiù, comunque — proposi.
Svegliammo Dempsey, dicendogli di occuparsi dei telefoni e degli schermi video. Dempsey si strofinò gli occhi, annuendo. Poi Wilson, Mangino e io ci affrettammo lungo il corridoio centrale verso l’area di carico. Mangino estrasse dal cappotto una pistola piatta, nero pece, tolse la sicura, e infilò l’arma in tasca.