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Le luci si accendevano automaticamente di fronte a noi mentre avanzavamo, spegnendosi alle nostre spalle. L’area di carico era un magazzino in miniatura: mucchi di scatoloni, fusti d’acciaio, casse, attrezzature strane avvolte in plastica trasparente.

— Qui dentro si potrebbe nasconderci un intero plotone — borbottò Mangino.

— Però tutto sembra in ordine — disse Wilson, guardandosi attorno. Feci per confermare, ma sentii una lieve corrente d’aria in faccia. Proveniva dalla direzione del portone di carico, due enormi serrande metalliche chiuse ermeticamente. Chiuse! Mi accostai, e vidi che in una saracinesca c’era una porticina, per consentire il passaggio di una persona senza bisogno di alzare tutto quanto. Tesi la mano.

— Chiusa a chiave — disse Mangino. — Serratura elettronica a timer. Se qualcuno cercasse di forzarla…

Toccai la maniglia e la porta si aprì senza sforzo. Mangino restò a bocca spalancata.

Chinandomi, vidi che l’area attorno al bordo della serratura era leggermente piegata, come se delle mani poderose avessero agito direttamente sul metallo fino a farlo cedere. La corrente d’aria proveniva da quello spiraglio.

— Perché non è scattato l’allarme? — si chiese Mangino a voce alta.

— Non importa, adesso — dissi. — L’attentatore è nel laboratorio! Presto!

Corremmo verso il settore del reattore, mentre Wilson continuava a protestare che nessuno avrebbe potuto manomettere i laser o il reattore per provocare un’esplosione.

La porta della sala controllo laser era stata scardinata. Una rapida occhiata all’interno rivelò che il locale era deserto. I quadri di comando sembravano intatti. Mentre Wilson ispezionava le strumentazioni, Mangino urlò nella radio portatile: — Tutte le guardie nell’area del reattore. Bloccare qualsiasi persona non autorizzata. Sparare in caso di resistenza. Chiamare subito la polizia e l’FBI!

Varcammo la porta che conduceva nella lunga sala di cemento che ospitava i laser. Di nuovo, le luci sul soffitto si accesero automaticamente al nostro passaggio.

— Questa porta avrebbe dovuto essere chiusa a chiave — gemette Wilson allarmato.

I laser erano barre di vetro lunghe e sottili, adagiate su massicci supporti metallici, simili a tante parallele ginniche. A intervalli di circa tre metri, le barre di vetro erano interrotte da gruppi di lenti, convertitori faradici e sensori. La linea multipla di laser percorreva la grande sala, puntando su una feritoia che si apriva nella parete di cemento armato. Oltre quella parete c’era il reattore, il punto in cui l’energia dei laser veniva concentrata su micromasse di deuterio combustibile.

Ci fermammo incerti per un attimo. Poi all’improvviso un ronzio elettrico cominciò a vibrare nell’aria. Percepii un lieve odore di ozono, e i tubi laser si accesero di una luce verdognola spettrale.

— Sono entrati in funzione! — ansimò Wilson.

8

Mangino e io ci girammo di scatto in direzione del centro di controllo all’estremità della sala. Dietro lo spesso vetro protettivo, confusa nell’oscurità, spiccava la sagoma massiccia di Ahriman.

Mangino estrasse la pistola e sparò. Il vetro si incrinò. Mangino continuò a far fuoco, riuscendo infine a rompere il vetro. Ma in quei pochi secondi Ahriman era fuggito.

Le luci si spensero. Si vedeva solo il bagliore accecante dei laser, scie multiple di energia sempre più intensa dirette attraverso la feritoia, nel nocciolo del reattore. Uscimmo incespicando nel corridoio. Buio dappertutto. Forse Ahriman aveva provocato una caduta di corrente in tutta la regione per riversare la massima energia nei laser.

Sopra il ronzio lamentoso dei generatori elettrici sentii dei passi di corsa. Poi degli spari.

— L’hanno beccato! — strillò Mangino. Ma a me sembrava che i passi e gli spari stessero allontanandosi da noi, diventando sempre più deboli. No, non avevano preso Ahriman, lo sapevo.

— Gli vado dietro — disse Mangino, e schizzò via nell’oscurità.

— Dobbiamo spegnere i laser prima che accumulino abbastanza energia da far detonare il litio — dissi a Wilson.

Nel chiarore spettrale venato di verde che usciva dalla porta, gli occhi del direttore tecnico erano sbarrati. — Impossibile che succeda! — insisté.

— Spegnamoli ugualmente.

Non protestò. Andammo nella sala controllo, e scoprimmo che le strumentazioni erano state distrutte. Quadri di comando sbriciolati, pannelli metallici divelti, fasci di cavi che penzolavano dai resti di schede modulari. Sembrava che lì dentro fosse passato un elefante impazzito. E attraverso il vetro rotto, vedemmo che adesso i laser pulsavano, illuminandosi in modo più vivido.

Wilson era a bocca aperta. — Com’è possibile che qualcuno abbia…

All’improvviso il gemito dei generatori si fece acutissimo e le barre presero a brillare ancor più intensamente. Sentii lo schiocco di una lente che scoppiava e cadeva sul pavimento della sala. Ormai la luce feriva la vista. Scostai Wilson dall’ammasso di rottami, e insieme barcollammo lungo il corridoio, verso la camera del reattore.

— Come si fa a disattivare il processo? — chiesi, gridando nello stridio dei generatori impazziti.

Wilson era frastornato. — La linea di alimentazione del deuterio…

— Manomessa anche quella, scommetto. Non riusciremo a bloccarla, come non riusciamo a spegnere i laser.

Wilson scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli arruffati. Nell’accecante riflesso verde sembrava un moribondo.

— La rete centrale di alimentazione elettrica — farfugliò infine. — Potrei raggiungere gli interrutori generali e bloccare tutto.

— Bene! Fatelo!

— Ma ci vorrà del tempo. Dieci minuti. Cinque, come minimo.

— Troppo! Sarà già troppo tardi. È terribile. Tra un paio di minuti, qui salta tutto! Due minuti.

— Lo so.

— Che altro possiamo fare? — gridai.

— Nulla!

— Dev’esserci un sistema per…

— Schermare — urlò Wilson. — Se potessimo piazzare nella camera del reattore uno schermo per bloccare i raggi laser…

Avevo capito. Bastava interrompere il flusso di luce che bombardava le microcapsule di deuterio, e il reattore si sarebbe disattivato.

— Uno schermo — dissi a Wilson. — D’accordo. Voi trovate gli interruttori generali. Io troverò uno schermo.

— Ma è impossibile…

— Muovetevi! — sbraitai.

— Non potete entrare nel reattore! Le radiazioni vi uccideranno in meno di un minuto!

— Andate!

Lo spinsi via. Wilson traballò, poi esitò mentre spalancavo la porta della sala del reattore.

— Per l’amor del cielo… No! — urlò.

Lo ignorai ed entrai.

Era una sala circolare, a cupola, bassa e angusta, un grembo di cemento armato immerso nella livida furia infernale dei raggi laser. Il feto al centro era una sfera metallica di un metro e mezzo circondata da tubature a spirale in cui scorreva litio refrigerante. Sembrava una batisfera, però non aveva oblò. Era impossibile interrompere il flusso luminoso dei laser dall’esterno; i raggi penetravano nella sfera attraverso uno spesso condotto di quarzo. Non sarei riuscito a rompere il condotto senza qualche attrezzo, anche se avessi avuto il tempo di provarci.

C’era un portello nella sfera. Senza riflettere, lo aprii con uno strattone. L’intensità allucinante della luce e del calore mi mandò a sbattere contro la parete. Una stella artificiale stava ardendo furiosa in quella camera, in procinto di esplodere.

Chiudendo gli occhi, afferrai i bordi roventi del portello. Penetrai nella camera, e misi il corpo di fronte ai raggi laser.