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O io?

Intanto erano arrivati due furgoni della televisione, e i reporter stavano parlando con il capitano di polizia mentre i tecnici smontavano con le loro telecamere portatili. Una giornalista dal viso spigoloso e la voce nasale mi intervistò per alcuni minuti. Risposi alle sue domande meccanicamente, la testa vuota, frastornato.

Quando la polizia mi lasciò andare, mi feci largo tra la ressa che si era formata attirata dal trambusto e percorsi a piedi i tre isolati fino al mio ufficio. Non raccontai a nessuno dell’esplosione. Mi ritirai nel mio cubicolo privato e chiusi la porta.

Mentre calava la sera, ero ancora seduto alla scrivania, chiedendomi perché avessero scagliato quella bomba e in che modo fossi riuscito a sfuggire al suo effetto micidiale. Il che mi portò a domandarmi come mai possedessi simili capacità fisiche, e se per caso i due sconosciuti scomparsi dal bar avessero poteri identici. Pensai di nuovo alla giovane. Chiudendo gli occhi, rievocai l’immagine dell’ambulanza che l’aveva portata via… Sulla fiancata c’era scritto: St. Mercy Hospital. Un rapido controllo tramite il mio computer, ed ebbi l’indirizzo dell’ospedale. Mi alzai e lasciai l’ufficio mentre le luci si spegnevano automaticamente dietro di me.

2

Solo quando varcai la porta girevole del St. Mercy mi resi conto di ignorare il nome della donna che volevo vedere. Immobile in mezzo all’atrio affollato e pieno di movimento, capii che sarebbe stato inutile chiedere aiuto a una delle impiegate della accettazione, già sommerse di lavoro. Per un attimo mi sentii smarrito; poi adocchiai un poliziotto.

Passai da un agente all’altro, chiedendo informazioni sulle persone ricoverate in seguito all’attentato di qualche ora prima. Dissi che ero della compagnia assicuratrice del ristorante. Solo un poliziotto, un negro corpulento con un bel paio di baffi, mi fissò sospettoso e mi chiese di identificarmi. Gli mostrai la tessera assicurativa; la guardò appena, ma l’aspetto ufficiale del documento parve bastargli. Forse anche la mia aria estremamente sicura servì a convincerlo.

In meno di mezz’ora entrai in una corsia che conteneva sedici letti, metà dei quali vuoti. L’infermiera incaricata mi guidò al letto dove la modella riposava con gli occhi chiusi e un cerotto color carne sulla fronte.

— Solo qualche minuto — mormorò l’infermiera.

Annuii.

— Signorina Promachos — chiamò sottovoce l’infermiera, chinandosi. — Ci sono visite.

La giovane aprì gli occhi, quegli stupendi occhi grigi profondi come l’eternità.

— Solo qualche minuto — ripeté l’infermiera. Poi si allontanò, e il cigolio delle sue scarpe si perse in fondo alla sala.

— Voi… siete quello che mi ha salvata, al ristorante.

Il cuore mi batteva impazzito, e io non mi sforzai di calmarlo.

— State bene? — chiesi.

— Sì, grazie a voi. Solo questo taglio sulla fronte. Dicono che non ci sarà bisogno di chirurgia plastica, che non rimarrà nessuna cicatrice.

— Bene.

Incurvò leggermente le labbra.

— E qualche ammaccatura sul corpo e sulle gambe per essere stata messa al tappeto.

— Oh. Mi spiace…

Rise. — Non è il caso. Se non mi aveste messa al tappeto… — Il riso si spense. Il suo bel viso divenne serio. Mossi un passo verso il letto. — Sono contento che non siate rimasta ferita in modo grave. Io… non so nemmeno il vostro nome.

— Aretha. Chiamami Aretha. — La sua voce era una melodia bassa, dolce, totalmente femminile senza essere acuta o stridula.

Non mi chiese quale fosse il mio nome, mi fisso invece con uno sguardo che sembrava perfettamente calmo, eppure ansioso, quasi aspettasse che le dicessi qualcosa. Qualcosa di importante. Cominciai a sentirmi a disagio, confuso.

— Non sai chi sono, vero? — mi chiese.

Avevo la bocca secca. — Dovrei saperlo?

— Non ricordi?

E cosa dovrei ricordare? fui tentato di ribattere. Invece scossi la testa.

Lei mi prese la mano. Le sue dita mi trasmisero una sensazione di calma e di freschezza. — Non preoccuparti — mi disse. — Ti aiuterò. Sono qui per questo.

— Per aiutarmi? — Adesso la mia mente vorticava. Cosa intendeva dire?

— Ricordi i due uomini seduti al bar oggi pomeriggio?

— Quello radioso… — La sua immagine splendeva vivida nella memoria.

— E l’altro tipo. Quello tenebroso. — Il viso di Aretha si era incupito. — Ricordi l’altro?

— Si.

— Però non ricordi chi sono, vero?

— Dovrei?

— Devi — disse lei, stringendomi forte la mano. — È assolutamente necessario.

— Ma io non posso saperlo. Non li ho mai visti prima.

Lasciò ricadere la testa sui cuscini. — Li hai visti, eccome. Li abbiamo visti tutti e due. Però non riesci a ricordare nulla di tutto ciò.

Sentii i passi cigolanti dell’infermiera avvicinarsi. — È una storia sconcertante — dissi ad Aretha.

— Perché quella bomba nel ristorante? Chi c’è dietro?

— Questo non è importante. Sono qui per aiutarti a ricordare la tua missione. Quanto è successo oggi pomeriggio è trascurabile.

— Trascurabile? Ci sono stati quattro morti!

Il mormorio dell’infermiera interruppe la nostra conversazione.

— Basta così, signore. Ha bisogno di riposare.

— Ma…

— Ha bisogno di riposare!

Aretha mi sorrise. — Va bene. Puoi tornare domani. Ti racconterò tutto domani.

A malincuore, la salutai e lasciai l’ospedale.

Mentre percorrevo lentamente l’intrico di corridoi affollati non prestai attenzione alle persone che mi passavano accanto. Le loro storie individuali di sofferenza erano lontane anni luce da me. La mia mente ribolliva, fremeva, stuzzicata dalle informazioni frammentarie che Aretha mi aveva fornito.

Mi conosceva! Ci eravamo già incontrati. Avrei dovuto ricordarmi di lei e dei due uomini visti al bar. Ma la mia memoria era vuota come lo schermo di un computer spento. Scendendo la scalinata del St. Mercy e cercando un taxi libero, decisi di non andare a casa. Diedi invece all’autista l’indirizzo del mio ufficio… dove c’era in archivio la mia scheda personale.

Gli aspetti esteriori non presentano problemi. Il mio nome è John G. O’Ryan. Cosa che mi aveva sempre creato un certo disagio, quasi si trattasse di un nome non adatto a me, quasi non si trattasse affatto del mio vero nome. John O’Ryan. Non mi calzava bene. Sono il capo delle ricerche di mercato della Continental Electronics Corporation, una multinazionale che produce laser e altre apparecchiature a tecnologia avanzata. La mia scheda personale, esaminata tramite il terminale del mio ufficio, diceva che avevo trentasei anni, ma io mi ero sempre sentito più giovane…

Sempre?

Cercai di ricordare il mio trentesimo compleanno, e constatai scioccato di non riuscirci. Avevo chiaro in mente il trentatreesimo, invece: quella notte l’avevo passata con Adrienna, la segretaria privata del capo. Una circostanza memorabile. Adrienna era stata trasferita presso la filiale londinese della compagnia alcune settimane più tardi, e da allora a quanto pareva avevo trascorso tutto il mio tempo coi computer e il mio lavoro. Cercai di ricordare il viso di Adrienna, ma fu inutile. Affiorò solo un’immagine vaga fatta di capelli scuri, di un corpo forte e snello, e di splendidi occhi grigi.

Oltre il mio trentatreesimo compleanno la mia mente era una tabula rasa. Mi concentrai finché non sentii che i muscoli contratti della mascella mi facevano male, eppure non riuscii a ricordare nulla al di là di quella barriera di tre anni. Non sapevo chi fossero i miei genitori. Nessun ricordo d’infanzia. Non avevo nemmeno qualche amico al di fuori della cerchia ristretta di colleghi e compagni di lavoro.